«Noi cristiani in pericolo»

Testimonianze drammatiche di profughi dalla Nigeria. Iyabo, 26 anni, incinta, è a Roma: «Ora il mio bimbo è al sicuro». Don Anthony Okolo: «Dietro la violenza ci sono motivazioni politiche ed economiche»

Iyabo ha grandi occhi neri, 26 anni e un bambino di sei mesi in grembo, che attende di nascere. È venuta in Italia dalla Nigeria con suo marito Taiwo alla fine della scorsa estate. A Roma c’erano già suo fratello con la moglie, con cui ora dividono un appartamento sulla Casilina. «We’re here for him, siamo qui per lui – dice mettendosi una mano sulla pancia – because we are Christians, perché siamo cristiani, and in our country has become dangerous being a Christian… e nel nostro Paese è diventato pericoloso essere cristiani».

Qualche mese prima che Iyabo e suo marito decidessero di rifugiarsi in Italia sui media di tutto il mondo era rimbalzata la notizia del rapimento delle 276 studentesse del villaggio di Chibok – a tutt’oggi, a distanza di oltre duecento giorni, ancora in mano ai rapitori -, ma essere cristiani in Nigeria era diventato pericoloso già da qualche anno e il sequestro che ha unito l’Occidente sotto l’hashtag #bringbackourgirls non è stato che l’episodio più eclatante di una persecuzione che nel Paese africano ha già fatto almeno cinquemila vittime.

«Quando ho saputo di essere incinta – dice ancora Iyabo in un inglese incerto – ho sentito che dovevamo andare via, che dovevo portare il mio bambino al sicuro: per via di mio fratello pensavo già all’Italia, ma l’importante era che fosse il più lontano possibile da quello che stava succedendo». Così Iyabo, che nonostante tutto si dice «lucky», fortunata, spiega il suo essere a Roma. Una sorte propizia che però non è di tutti: da quando il gruppo terrorista conosciuto come Boko Haram ha deciso di fare della Nigeria uno Stato islamico, migliaia di cristiani sono stati costretti a fuggire ma altrettanti non ci sono riusciti, vittime di massacri notturni a colpi di kalašnikov contro villaggi addormentati, di attentati esplosivi all’uscita delle chiese la domenica mattina, di assalti e rastrellamenti casa per casa, uomini armati contro donne e bambini.

«Dietro tutta questa violenza c’è una motivazione politica ma soprattutto economica: il nostro Paese è il primo produttore di petrolio dell’Africa e le élite musulmane non possono accettare che oggi sia governato da un presidente cristiano». A denunciarlo è don Anthony Okolo, responsabile della comunità cattolica nigeriana di lingua inglese a Roma presso la parrocchia dei Santi Simone e Giuda Taddeo a Torre Angela, cui abbiamo chiesto un quadro della situazione. Nell’aprile del 2011, quando fu eletto presidente il cristiano Jonathan Goodluck, in quarantotto ore furono bruciate quasi 800 chiese e uccise 204 persone.

«Da allora Boko Haram ha dichiarato guerra ai cristiani – spiega don Anthony -, perché la Nigeria è grande tre volte l’Italia, con tante risorse naturali e umane, ma il 70 per cento della nostra popolazione vive ancora sotto la soglia di povertà e le fasce più deboli sono proprio quelle musulmane: una situazione sfruttata dagli estremisti». Anche padre Bede Ukwuije, assistente generale della Congregazione dello Spirito Santo, confratello di don Anthony di ritorno dalla Nigeria appena la settimana scorsa, concorda: «Oggi lo Stato – afferma – è diviso a metà dal punto di vista economico e in tre da quello sociale e confessionale: a sud, che è la parte ricca perché c’è il petrolio, troviamo soprattutto gli Yoruba, che sono cristiani, e gli Ibo, islamici, mentre il nord, arretrato e povero, è abitato principalmente dagli Hausa-Fulani, che sono quasi tutti musulmani».

Un quadro che spiega la violenza degli jihadisti di Boko Haram, responsabili di eccidi e rapimenti sempre più feroci, l’ultimo la scorsa settimana, quando altre 60 ragazze sono state rapite nella regione di Adamawa, nel nord est del Paese. «Oggi i cristiani hanno paura – racconta padre Bede – ma anche i musulmani moderati: nel Borno la gente scappa dalle città e dai villaggi e cerca rifugio fra le montagne, e fra loro non ci sono solo cristiani, ma anche molti musulmani che non accettano le violenze». Per padre Bede l’unica soluzione è che si mobiliti la comunità internazionale. «Il governo non ha la forza di controllare la situazione – dice – perciò abbiamo bisogno della solidarietà dell’Occidente: per fortuna il Papa e la Chiesa non ci lasciano soli e per questo continuiamo a pregare e sperare».

 

3 ottobre 2014