“No woman no cry”, la speranza di Marley dall’inferno del ghetto

Un omaggio alla musica reggae, inserita nei giorni scorsi dall’Unesco nel Patrimonio dell’umanità

La musica reggae nel Patrimonio dell’umanità. La decisione dell’Unesco è dei giorni scorsi. La musica giamaicana, famosa in tutto il mondo, è stata iscritta nella lista dei Beni Immateriali dell’umanità. A motivare il riconoscimento «il suo contributo al dibattito internazionale su questioni di ingiustizia, resistenza, amore e umanità».

Da qui l’omaggio a questo genere musicale e a uno dei suoi protagonisti straordinari, Bob Marley, con una tra le sue canzoni più celebri, “No woman no cry”, nella versione live che la rende di grande intensità. Un brano famosissimo, che ha avuto tante cover; cito solo quella di Joan Baez perché era una costante nei suoi concerti, fino agli ultimi a cui abbiamo potuto assistere pochi mesi fa in Italia.

Un brano di Marley anche se il mito del reggae non figura ufficialmente come autore. L’artista giamaicano, scomparso l’11 maggio del 1981 a soli 36 anni, donò i diritti di “No woman no cry” a una mensa per poveri, gestita da un suo amico d’infanzia. Si chiamava Vincent Ford (è morto anche lui, nel 2009), era soprannominato Tata e viveva nel sobborgo di Kingston (che ispirò il testo di “No woman no cry”) durante gli anni ’60, quando Marley esordiva con i Wailers. Era il direttore della mensa dei poveri di Trenchtown, nella capitale giamaicana, e le entrate provenienti dai diritti ne hanno assicurato negli anni la sopravvivenza. Del resto, la generosità è stata un segno distintivo della vita di Marley.

“No Woman No Cry” apparve per la prima volta nell’album Natty Dread” del ’74 ma la versione più celebre è quella contenuta in “Live!” (da una registrazione dal vivo realizzata il 19 luglio 1975 al Lyceum Ballroom di Londra). «Ricordo quando sedevamo / nel Government Yard a Trenchtown / Osservando gli ipocriti / Mescolarsi alle brave persone che si incontrano / Abbiamo buoni amici / Oh, e abbiamo perso dei buoni amici lungo la strada / In questo futuro grandioso, / non puoi dimenticare il tuo passato / Quindi asciugati le lacrime, dico io / No donna, non piangere / No donna, non piangere / Cara, non versare lacrime / No donna, non piangere».

Emerge il valore della memoria, le difficili condizioni di vita quotidiana, e quel Government Yard di cui parla il testo si riferisce a un progetto di edilizia popolare con monolocali che si affacciavano su un cortile centrale, acquistati negli anni ’40 del secolo scorso dal Ministero dell’Edilizia giamaicano per dare alloggio ai veterani della seconda guerra mondiale e soprattutto a coloro che arrivavano a Kingston dalle campagne. Progetto mai realizzato, Trenchtown rimase un ghetto, in cui Marley crebbe dall’età di 12 anni. Col tempo divenne un luogo di incontro per musicisti e artisti. Quell’esperienza segnò per sempre Marley e dette l’impronta al suo stile, alla sua musica, al suo impegno per gli altri. «Trenchtown – disse una volta – non è in Giamaica, Trenchtown è ovunque, perché è il luogo da cui vengono tutti i diseredati, tutti i disperati, perché Trenchtown è il ghetto, è qualsiasi ghetto di qualsiasi città… E se sei nato a Trenchtown, non avrai la benché minima possibilità di farcela».

Nella canzone scorrono i ricordi con semplicità. «Poi Georgie accendeva il fuoco / Dico io, la legna bruciava nelle notti / Poi preparavamo il pasticcio d’avena / che dividevo con te / I miei piedi sono il mio solo mezzo di trasporto, / e quindi devo andare avanti / Oh, ma mentre sono via / Tutto andrà bene / Tutto andrà bene / Tutto andrà bene / Tutto andrà bene». Chissà in quanti abbiamo canticchiato questo “Everything’s gonna be alright”… E quel finale che cerca di consolare: “No donna, non piangere”.

 

4 dicembre 2018