“Nemici. Una storia d’amore”, la Shoah e la forza di Isaac Singer

Nel romanzo la quinta scenografica di New York, mai così bella nei suoi anfratti sporchi, che agli immigrati ebrei fanno tornare in mente i vecchi quartieri d’Europa da cui provengono

Leggere Isaac Bashevis Singer è sempre un’esperienza emozionante; specie i romanzi inizialmente usciti a puntate sul “Forverts”, il leggendario quotidiano yiddish dei profughi ebrei sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti che si stampava a New York negli anni del secondo dopoguerra, possiedono una forza ineguagliabile: fra di essi il più famoso, anche per la trasposizione cinematografica che ne ricavò Paul Mazursky, è forse “Nemici. Una storia d’amore”, pubblicato nel 1966, tradotto nella versione inglese sei anni dopo e da tempo non disponibile nelle librerie italiane. Adelphi, che sta rieditando tutta l’opera del grande scrittore polacco emigrato negli States, premio Nobel per la Letteratura nel 1978, lo ha riproposto nella versione di Marina Morpurgo (pp. 257, 18 euro).

È la storia di Herman Broder, sfuggito alla Shoah e sbarcato a Ellis Island, di fatto un trigamo con due mogli e un’amante, incapace di scegliere fra una di loro. Uomo dal fascino speciale, metà filosofo metà contafrottole, si è messo al soldo di un rabbino per cui scrive, ma sembra intrappolato nella metropoli tentacolare, in quella Coney Island battuta dalle onde dell’oceano che schiumano sul pontile di legno come «mute di cani latranti, incapaci di mordere». Proprio lì questo personaggio tragicomico pensa al Dio del mare, «infinitamente saggio, illimitatamente indifferente, spaventoso nel suo potere immenso, soggetto a leggi immutabili». Una è Jadwiga, contadina polacca che lo salvò dalla deportazione nascondendolo nel suo fienile: sarà lei a renderlo padre; l’altra è Tamara, creduta morta ma poi riapparsa come un fantasma a Manhattan, purtroppo senza i bambini uccisi dai tedeschi. In mezzo a queste due consorti ufficiali sta Masha, anche lei scampata al lager, che abita con la vecchia madre in una stanzetta in affitto e cerca di lasciarsi alle spalle il suo terribile passato.

Singer gioca con queste donne come farebbe il burattinaio di un cortiletto mostrandole ad Herman, dilaniato fra il richiamo severo della Torà e la forza incandescente della modernità, quali incarnazioni del mondo antico in contrapposizione con quello nuovo: ne deriva un teatrino di continue sorprese narrative. Boutade che, agli occhi di un lettore ingenuo, potrebbero essere scambiate per semplici melodrammi, compreso il finale spettacolare in cui il protagonista miseramente soccombe. In realtà così non è, in considerazione della potenza evocativa dell’intera rappresentazione tutta imperniate sulla fantastica debolezza di Herman, lacerato dalle sue passioni oscure e luminose, tali da illustrare, come meglio non si potrebbe, il significato del titolo, legato a un detto yiddish «secondo il quale dieci nemici non riescono a infliggere a un uomo il danno che egli è in grado di infliggere a se stesso». Ma il romanzo, al cui centro resta incisa la riflessione sul libero arbitrio, non sarebbe una delle prove più convincenti di Isaac Singer se non ci fosse la quinta scenografica di New York, mai così bella nei suoi anfratti sporchi e seminterrati spogli, che agli immigrati ebrei fanno tornare in mente i vecchi quartieri del centro Europa da cui provengono, nella cupezza quasi arcaica della sopraelevata dove da Brookylin al Bronx corrono i treni sotto i fiocchi della neve atlantica mentre gli esseri umani, come uccelli di passo sorpresi dalla tormenta, cercano inutilmente riparo dal freddo.

28 gennaio 2019