Nembrini: Leopardi e quella «domanda insopprimibile»

A San Giovanni la riflessione su “Il passero solitario” e “L’infinito”. Nel poeta di Recanati, «l’amarezza e la tristezza di un uomo che sente la vita come una grande promessa non realizzata» e il «compito profetico» di «gridare l’estremo bisogno che qualcuno ci salvi dal nulla»

Etimologicamente “desiderare” indica l’aspirare alle stelle per il fatto di sentirne la mancanza. Nell’opera poetica di Leopardi trova spazio anche questa accezione perché «qualcosa in lui continua a gridare la ricerca di infinito e non lo fa cedere alla constatazione del male, della morte e della corruzione di tutte le cose» e anche quando «tutto sembra finire, trova la forza di dire “no”» in nome della «nostalgia di una grandezza e pienezza irrinunciabili». Lo ha spiegato ieri sera, 15 marzo, il professore e saggista Franco Nembrini nel corso del terzo incontro del percorso quaresimale promosso dalla diocesi di Roma e intitolato “Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi”, presentando nella basilica di San Giovanni in Laterano due dei componimenti più noti del poeta di Recanati: “Il passero solitario” e “L’infinito”.

Procedendo nel «”viaggio” bello, profondo e importante che stiamo compiendo in queste settimane» nel tentativo di «vivere tutti gli enigmi della vita e cogliendo lo spessore delle cose», come ha detto nel suo saluto iniziale don Fabio Rosini, direttore dell’Ufficio diocesano per le vocazioni, Nembrini ha invitato a «vivere le domande inquiete» come quelle legate «al mistero della morte» e a «non avere paura di entrarci», riprendendo questo monito dall’omelia tenuta da Papa Francesco in occasione della scorsa Epifania. Guardando dunque alla «insopprimibilità della domanda», l’esperto ha illustrato come «in Leopardi c’è un pensiero dominante» – che dà anche il titolo a una sua poesia -, segno «di un’esigenza che dia senso e scopo all’esistenza» laddove «ogni fame e ogni sete dovrebbero manifestare l’unica grande sete e l’unica grande fame, quella di Cristo», ha chiosato. Se in Leopardi «non c’è questa risposta di fede» c’è però «questo pensiero dominante che è aspirazione al bene, al bello, alla giustizia, che dovrebbe essere la stoffa di ogni consapevolezza, di ogni sogno e di ogni desiderio» e che lo porta a «chiamarsi fuori dall’atteggiamento di chi si ferma a ciò che è utile e immediato, anche se questo fosse causa di solitudine».

Proprio tra la sua scelta di vita e la solitudine «del passero isolato e meditabondo» Leopardi «stabilisce un paragone», dicendo «”maggior mi sento” rispetto a chi vive l’allegra felicità», e lo fa non per presunzione – sono ancora le parole di Nembrini – ma perché sente tutta la grandezza e il peso del suo cuore» e sa cogliere e «ammirare, con un atto continuo di contemplazione, la meraviglia della natura, descritta con aggettivi belli e positivi e con gli stessi suoni e colori della festa imminente de “Il sabato del villaggio”». C’è dunque nel poeta di Recanati «l’amarezza e la tristezza di un uomo che sente la vita come una grande promessa però non realizzata» per cui «tanto sperare e tanta dolcezza, che sembra distribuita a piene mani dal Creatore», lasciano in lui e a lui «soltanto la consapevolezza che tutto finisce». Da qui la presa di coscienza del suo «compito profetico: gridare l’estremo bisogno che abbiamo che qualcuno ci salvi dal nulla», ha chiosato Nembrini.

Lo stesso «slancio del cuore dell’uomo e l’attesa, il bello, il giusto e il vero per cui si sente fatto» sono presenti ne “L’infinito”, la lirica della giovinezza in cui Leopardi manifesta «tale desiderio non come fosse cosa buona per sé ma come essenziale a sé – ha detto Nembrini -: è cioè un bisogno e una mendicanza dell’uomo e non un atteggiamento morale né una virtù»; a dire che «l’uomo è quello che deve essere quando è consapevole di questo suo profondo bisogno» e che questo famosissimo componimento «è la più potente definizione dell’io ossia di quella parte della realtà che è consapevole di sé». Leopardi dunque di fronte «alla irrinunciabile attrattiva per la realtà, nella quale è entrato qualcosa di tremendo come la morte», dice che «solo l’eterno o l’infinito potrebbero soddisfare il desiderio umano». Nembrini ha quindi evidenziato come «fino al Leopardi poeta, e non quello della riflessione filosofica, che è altra cosa, l’uomo viene al mondo con un’attesa di bene che la morte interrompe» ma questo, che pure genera una insanabile incomprensione, «in lui come in Dante non nega la verità della domanda inquieta da cui muove: Chi mi ha tratto dal nulla?» ma, anzi, lo porta a ribellarsi «alla morte perché vuole restare fedele al desiderio di vita». Oggi invece, ha concluso Nembrini, «l’uomo moderno che vede contraddetta l’attesa dall’esperienza del peccato, del tradimento e della morte» lo porta a negare «quella energia di adesione al vero per cui vale la pena sacrificare la vita».

Anche il cardinale vicario Angelo De Donatis, guardando al salmo 8 nelle sue conclusioni, ha osservato che «tutto sembra confermare che l’uomo è nulla davanti allo spettacolo del Creato» ma che «in virtù del suo desiderio di infinito egli è poco meno degli angeli» e questa consapevolezza e «come una trincea contro gli assalti della disperazione e come un argine contro il dilagare della paura».

Il quarto e penultimo incontro è in programma per mercoledì prossimo, 23 marzo, alle 19 in cattedrale, ma si potrà seguire anche in diretta tv su Telepace e in streaming sul canale YouTube della diocesi.

16 marzo 2023