Nembrini: la «relazione d’amore, senso profondo della “vita nuova”»
Inaugurato, nella basilica lateranense, il ciclo dei “quaresimali” dedicato a “Dante pellegrino di speranza”. Rosini: «Sia un viaggio interiore capace di tirarci fuori dal grigiume». Di Tolve: «La morte non può essere l’ultima parola»
Luce contrapposta al buio, consapevolezza antidoto alla perdizione e risposta che calma «il grido disperato dell’uomo da sempre». Si manifesta così il germoglio di quella “vita nuova” che fiorisce nel cuore dell’uomo quando «scopre che il senso profondo sta nella relazione d’amore» e che il primo «mistero d’amore è quello della Trinità», a dire che «la natura di Dio è rapporto e relazione, non è il motore immobile di Aristotele». Così Franco Nembrini, insegnante e saggista, in una gremita basilica di San Giovanni in Laterano, ha presentato ieri sera, 12 marzo, il percorso di Quaresima proposto dalla diocesi di Roma e intitolato “A te convien tenere altro viaggio”, dedicato a “Dante pellegrino di speranza”.
Anche don Fabio Rosini, biblista e docente di Comunicazione e trasmissione della fede alla Pontificia Università della Santa Croce, nel suo saluto iniziale ha auspicato che questo quaresimale sia «un viaggio interiore capace di tirarci fuori dal grigiume», abbandonando «ciò che è estraneo alla libertà dei figli di Dio» per riconoscere invece «la meta» e che «c’è una vita meravigliosa, la vita cristiana che è una vera “vita nuova”». Proprio dunque guardando all’opera giovanile del sommo poeta “Vita nova”, Nembrini ha spiegato come «tanto sia pertinente questa lettura per la comprensione dell’opera maggiore poiché ne contiene le premesse teoriche» e quanto dunque abbia in sé «i fondamenti di quella Divina Commedia» che racconta il viaggio compiuto da Dante «proprio nella settimana Santa del 1300, anno del primo Giubileo della storia».
Per l’esperto, infatti, «il tema della “Vita Nova” è di una grandezza e profondità uniche» perché prende avvio dal primo incontro tra Dante e l’amata Beatrice quando entrambi avevano solo 9 anni e, più in generale, dice di «quando l’uomo prende coscienza di sé» contestualmente alla scoperta di «essere in rapporto con l’altro e dalla fedeltà a questo rapporto spera la felicità a cui si sente destinato». Eppure, ha continuato Nembrini, «proprio da questa promessa di felicità Dante riceve la più grande delusione» poiché Beatrice muore e questo «provoca nel poeta un moto di rabbia e di ribellione nei confronti di Dio ed esprime la domanda radicale dell’uomo sul perché la vita pone una promessa di bene che è poi destinata a essere tradita».
Anche «la nostra società moderna sente la vita come tragedia e ha l’idea di una promessa non mantenuta», sono ancora le parole di Nembrini, mentre «Dante di fronte a quella domanda si ferma e dice a se stesso che la vita non può che essere una promessa di bene perché egli sente questo con la sua ragione e percepisce una tensione» perciò la causa della delusione e della disperazione è da ricercarsi, per Dante, «nella sua debolezza e nell’incapacità di comprendere la morte». È a partire da queste premesse, ha illustrato Nembrini, che il poeta fiorentino matura dunque la convinzione, dichiarata nell’ultimo sonetto della raccolta, di «non parlare più di Beatrice, pur sentendo il dolore per la sua perdita, finché non avrà compreso più a fondo tale mistero: ecco la premessa e la promessa della Divina Commedia».
Andando più in profondità, Nembrini ha spiegato anche che Dante compie «il tentativo di raccontarci come ha sempre concepito il suo rapporto col mistero, per lui legato e incarnato col suo rapporto con la donna» che, per il poeta, «nell’economia della salvezza ha un ruolo e una specificità unici», guardando in questo in particolare a Maria. «In Lei – ha detto Nembrini – è condensato e pienamente realizzato ciò che Dio ha messo nell’uomo», laddove «Maria è l’emblema dell’umiltà ossia della consapevolezza che in me e attraverso me Dio può fare grandi cose». Ancora, il richiamo dell’esperto a Maria «presentata nel Paradiso da Dante come “fontana di speranza vivace”» per dire che «la speranza cristiana non è un generico ottimismo ma la certezza delle cose future», base fondante di «un presente ricco». Da ultimo, la sottolineatura rispetto a Beatrice che, invece, rappresenta «Dio nell’incarnazione» ovvero in lei, ha detto Nembrini, «vediamo la carne attraverso cui ogni giorno Cristo si consegna a noi, il corpo di Dio in Cristo che è la Chiesa, cioè il luogo della permanenza di Cristo nella storia».
Affidate al vescovo ausiliare Michele Di Tolve le conclusioni. «La morte non può essere l’ultima parola – ha detto il presule – perché Cristo ci ha salvato nascendo, con l’incarnazione, e dopo averci raggiunto in quell’abisso che è la morte è risorto. In questo si fonda la nostra speranza: non ha avuto paura, per amore, di amarci fino all’abisso più profondo».
13 marzo 2025