«Nell’ora violetta», Sergio del Molino scava nel suo dolore di padre

Il titolo, riprendendo un verso di Eliot, allude al momento più estremo che un padre possa sperimentare nel momento in cui gli dicono che suo figlio è affetto da leucemia

I reparti ospedalieri di oncologia pediatrica sono luoghi di dolore insanabile perché veder soffrire un bambino malato è forse una delle esperienze più drammatiche che possa mai capitare a un essere umano; tuttavia proprio in questi posti, e lo sanno gli operatori sanitari anche volontari che vi operano, si sente crescere una forte carica di adrenalina, come se i pazienti e i loro parenti, soprattutto i genitori, fossero impegnati, notte e giorno, ora dopo ora, a contrapporsi alla tragedia incombente nel tentativo di fronteggiarla con una sia pure disperata vitalità.

È tale il risultato raggiunto da Sergio del Molino, scrittore madrileno classe 1979, con un romanzo autobiografico di grande intensità, Nell’ora violetta, pubblicato in Spagna quattro anni fa e tradotto in Italia da Maria Nicola per Sellerio (pp. 225, 16 euro). Il titolo, che riprende un verso di T. S. Eliot, allude al momento spirituale più estremo che un padre possa sperimentare nel momento in cui gli dicono che suo figlio, Pablo, di appena un anno, è affetto da una forma di leucemia gravissima alla quale assai difficilmente potrà scampare.

Si tratta di un diario, per quanto
sconnesso e talvolta sul punto di deflagrare nel delirio, tuttavia sempre controllato, dei ricoveri, delle analisi, delle terapie, fino al trapianto di midollo spinale che purtroppo non servirà a niente. Una sorta di brogliaccio, scandito in quattro parti narrative, su una condizione esistenziale talmente spaventosa che nemmeno il linguaggio può definirla: «I figli che hanno perso i loro genitori sono orfani, i coniugi che chiudono gli occhi al loro compagno sono vedovi. Ma noi che abbiamo firmato i documenti per il funerale dei nostri figli», scrive del Molino nella densa pagina introduttiva, «non abbiamo nome né stato civile. Siamo genitori per sempre».

E, quasi volendo rigirare il dito nella piaga, aggiunge: «Genitori di un fantasma che non cresce, che non diventerà grande, che non andremo a prendere a scuola, che non conoscerà mai una ragazza, che non si iscriverà all’università e non se ne andrà mai di casa. Un figlio che non ci darà dispiaceri e al quale non faremo mai la predica. Un figlio che non leggerà i libri che gli abbiamo dedicato». Fa impressione apprendere che Sergio del Molino, padre anche di un altro figlio, Daniel, col quale il libro si chiude, possa aver composto quest’opera a soli 34 anni, configurandola in sostanza alla medesima stregua di un manuale di sopravvivenza, estendibile a tutti gli individui, anche a chi non ha perso un figlio ma, per una ragione o per l’altra, si sente con le spalle al muro.

Come sia riuscito a comprimere in una bolla stilistica di potenza esplosiva la sua ferita sanguinosa ha un che di miracoloso. I materiali tematici erano talmente esili e il loro valore semantico così rischioso che sembrava un’impresa impossibile. E invece lo scrittore, calandosi a occhi aperti dentro il cratere della sua rovina interiore, porta in salvo qualcosa che forse lui stesso non avrebbe mai sperato di raggiungere: la consapevolezza di non poter dimenticare il piccolo Pablo e la certezza che la letteratura gli ha dato di averlo sempre dentro: «Il dolore ed io abbiamo firmato un patto di convivenza. Non lo annullerò con trucchi da psicologia spicciola e lui mi lascerà vivere. Anche se in un’ora violetta eterna. Anche se a volte cammino per la città parlando con mio figlio morto e gli racconto tutte le storie che penso gli piacerebbe ascoltare».

 

13 novembre 20117