Nell’atavica Sicilia l’alimento vitale delle opere di Ercole Patti
I titoli più celebri ora compresi nella raccolta “Tutte le opere”, curata da Sarah Zappulla Muscarà ed Enzo Zappulla. Il nucleo essenziale nel “Diario siciliano” del 1971
In letteratura, così come nella vita, a contare non sono i fatti ma gli sguardi. Non la trama, bensì lo stile. Non le storie, piuttosto il timbro di voce. Per questa ragione Ercole Patti, nato a Catania nel 1903 e morto a Roma nel 1976, le due città che l’hanno formato e forgiato, sentinelle postume della sua ispirazione più profonda, si è ritagliato uno spazio unico nel canone italiano. Difficile trovare un altro scrittore come lui così fedele, sino allo stremo, alla misura del proprio sentimento, eppure sempre aperto, espansivo, eclettico, disponibile. Tanto sapeva che nessuno avrebbe potuto rubargli il nocciolo scuro, interno, segreto, prezioso, da cui prendeva alimento: quella Sicilia atavica di agrumeti e terrazze scalcinate dove ribolliva l’esistenza degli smidollati suoi personaggi preferiti.
Lo stupore dell’adolescenza ferita di fronte alla scoperta dei sensi, lo sbilanciamento irrisolto della maturità mai compiuta, l’illusione consapevolmente vana del mito meridionale: questi furono i disperati fuochi interiori che lo animarono in una risposta vitale che fa suonare a festa le campane della letteratura novecentesca. Oggi, alla distanza giusta, possiamo dirlo a ragion veduta: incredibilmente è stato Ercole Patti il nostro Henry Miller, capace di sciogliere con sagacia irripetibile la tensione dei giorni di Clichy sulle chiome degli alberi di Villa Borghese e l’eremo ecologico del Big Sur in un vino rosso di quattordici gradi sorseggiato in una villa dell’entroterra siculo.
Ripercorro l’indice dei titoli più celebri, ora compresi in Tutte le opere, la strepitosa raccolta curata con rigorosa passione filologica e grande acume critico da Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla per La Nave di Teseo (pp. 3215, 60 euro): gli indimenticabili racconti di Quartieri alti, Roma amara e dolce, In riva al mare; i romanzi brevi di taglio maupassantiano Giovannino, Un amore a Roma, La cugina, Un bellissimo novembre, Graziella, e poi i reportage, i testi teatrali e radiofonici, le recensioni cinematografiche. Il materiale, comprensivo di una ricca bibliografia critica che oggi sembra assomigliare a una scienza perduta, è vastissimo. Eppure chi volesse toccare con mano il nucleo essenziale dovrebbe tornare al Diario siciliano del 1971: una sorta di cannocchiale rovesciato perché i ricordi procedono dalla vecchiaia nostalgica ormai in disarmo alla fanciullezza elettrica delle estati trascorse negli stabilimenti balneari di Guardia Ognina.
La descrizione dello studio di Giovanni Verga, nella Catania decrepita della biblioteca che fu il teatro interiore del grande maestro, sprofondata in un regno di penombra le cui finestre danno sui cortili arsi dal sole coi panni stesi ad asciugare, scopre la matrice più autentica della scrittura pattiana. Anche se forse il vero manifesto della sua poetica profondamente cechoviana restano le folgoranti pagine del Prologo dal titolo L’adolescenza: «L’odore del mare di Catania nel 1920, quell’odore di vecchie tavole imbevute di salsedine, di scogli ricoperti di alghe verdi o avana pallido carnose e sensibili come branche di polipo». Coi pezzi di ghiaccio dell’Etna che, frantumati nel bicchiere del vino e del caffé, si scioglievano in bocca con un sapore di granita nel pensiero rivolto alla figlia dell’avvocato. Soprattutto ai suoi occhi nocciola: «Che guardavano dall’alto del balcone di antica pietra bianca».
28 ottobre 2019