Nairobi, inferno e paradiso

Nella periferia della metropoli -5 milioni e mezzo di abitanti -, fiumi di fango e detriti. E la pioggia, che da settimane viene giù, non si placa. Danni in tutto il Kenya

«È vero che siamo a Nairobi il cui nome è tutto un programma, ma quando è troppo è troppo!». A parlare è George, un giovane universitario che frequenta la facoltà di Linguistica della University of Nairobi. In effetti, il nome Nairobi trae le sue radici dall’espressione maasai “Enkare Nyrobi” che significa letteralmente “acqua fredda”. Ora, con tutta la pioggia che da settimane è venuta giù, il suo sfogo è più che plausibile.

Mentre scriviamo, la periferia è inondata da una fiumana di fango maleodorante e detriti. La pioggia continua ad imperversare, mentre i fiumi in piena muggiscono ininterrottamente. Nairobi è una metropoli di 5 milioni e mezzo di abitanti e appare come la città dalle mille contraddizioni: inferno e paradiso. Ciò che colpisce maggiormente sono le diseguaglianze. Da una parte svettano grattaceli, centri commerciali extra-lusso e autostrade a pagamento finanziate e realizzate dalle imprese cinesi per conto del governo, per non parlare dei quartieri residenziali. Dall’altra campeggiano le 110 baraccopoli che costellano la Capitale, dove sopravvive in condizioni penose il 60 per cento della popolazione cittadina. Kariobangi, Korogocho, Dandora e Mathare sono quelle più densamente popolate. Qui le case sono a dir poco fatiscenti: baracche di lamiere spesso senza luce e acqua corrente.

Le baraccopoli sono attraversate da due fiumi che sono esondati ripetutamente in questi giorni, spazzando via ogni genere d’insediamento: il Nairobi e il Mathare river. Con il risultato che tutto da quelle parti è sommerso dai liquami fuoriusciti non solo dai corsi d’acqua, ma anche dalle tradizionali fogne a cielo aperto. La situazione è comunque grave in tutto il Paese, dove si registrano danni a non finire. Le cifre ufficiali fornite dal governo di Nairobi parlano di oltre 200 morti a causa del maltempo, altrettanti i feriti, mentre oltre 200mila persone sarebbero sfollate. Naturalmente è un computo che va preso col beneficio d’inventario anche perché è molto difficile riuscire a monitorare quanto realmente sta avvenendo negli insediamenti urbani più svantaggiati nelle periferie.

Come se non bastasse, stamane, 8 maggio, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato ufficialmente che nella contea di Tana River, nel Kenya orientale, sono stati già rilevati 44 casi di colera. Il ministero degli Interni keniano ritiene che quasi 200 dighe siano ad alto rischio, motivo per cui è stato impartito l’ordine di evacuazione in 33 contee dove sono presenti bacini idrici artificiali. L’erogazione dell’energia elettrica in alcune zone dell’entroterra è interrotta da giorni, ma anche a Nairobi l’intero comparto energetico è stato messo a dura prova. Sui giornali locali si legge che il governo si è mobilitato, coordinando il supporto logistico per alleviare le sofferenze di coloro che hanno perso tutto. Anche se poi alla prova dei fatti scarseggiano gli alloggi temporanei e le forniture essenziali per portare sollievo alla gente colpita da una calamità che si sta procrastinando irrimediabilmente nel tempo.

Le autorità, a scopo cautelare, hanno chiuso le scuole a tempo indeterminato e quando ogni tanto il cielo si apre a sprazzi, in quegli scampoli di tregua tra uno sgrullone e l’altro, i bambini scendono nei viottoli delle baraccopoli per giocare. Si accontentano di poco o niente, pur di tornare a correre. Colpisce soprattutto il loro sorriso misto a stupore quando vedono i missionari e i volontari delle organizzazioni umanitarie prodigarsi nel portare sollievo distribuendo aiuti. Tra loro, ogni giorno, è presente con i suoi volontari padre Maurizio Binaghi, comboniano, direttore di Napenda Kyushu, un programma per giovani di strada tossicodipendenti disseminati nelle baraccopoli. Grazie alla generosità del Sovrano Ordine di Malta, queste sentinelle del mattino stanno distribuendo materassi e coperte ai civili alluvionati, molti dei quali piangono le loro vittime.

Sotto il profilo umano non rimane che assistere sgomenti allo spettacolo della desolazione e dei danni causati dalle infauste inondazioni. L’aggettivo non è casuale: esprime il senso di spavento, la paura davanti alla calamità impossibile da fronteggiare e che si abbatte rovinosamente colpendo gli esseri umani e gli animali, spazzando via tutto quanto incontra sul suo percorso e lasciando dietro di sé desolazione e rovina. S’impone l’urgenza, più che mai, di assicurare una giustizia sociale essendo inaccettabile che a pagare siano sempre i poveri, gli ultimi relegati nei bassifondi della storia contemporanea.

8 maggio 2024