Myanmar, il cardinale Bo: «L’odio non può essere dissipato con l’odio»

Situazione critica. Negli ultimi giorni uccisi, tra gli altri, un ragazzo di 17 anni e una bambina di 7, mentre era in casa. È la vittima più giovane della repressione

Arrivato ieri, 23 marzo, via Twitter, il nuovo appello di pace lanciato dal cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon e presidente dei vescovi del Myanmar, mentre continuano, nel Paese, le proteste per la democrazia, contro il colpo di Stato che il 1° febbraio scorso ha portato al potere i militari, annullando i risultati delle elezioni democratiche regolarmente svolte l’8 novembre vinte dal partito di Aung San Suu Kyi. «La lotta del Myanmar è stata fin troppo lunga e sanguinosa – le parole del porporato -. Non ci sono soluzioni facili. L’odio non può essere dissipato con l’odio ma solo con l’amore; l’oscurità non è mai dissipata con l’oscurità ma solo con la luce. Ancora una volta vi chiedo di essere pacifici e strategici per evitare lo scontro e la perdita di vite umane».

Intanto nel Paese è ancora disordine e violenza. Stando ai dati dell’Associazione di assistenza per i prigionieri politici (Aapp), un gruppo di difesa che monitora detenzioni e morti, sono almeno 261 le persone uccise dalle forze di sicurezza nel tentativo di reprimere le proteste. Secondo quanto riportato dai media birmani, solo nei disordini del 22 marzo sono state uccisi a Mandalay, la seconda città del Myanmar, almeno otto persone, tra cui un ragazzo di 14 anni. Nella notte poi le forze di sicurezza hanno anche organizzato raid in alcune parti di Yangon con colpi di arma da fuoco, ferendo alcune persone. Ancora, media locali raccontano che la polizia e i soldati minacciano di sparare dentro le case se le persone non rimuovono le barricate sulle strade.

Secondo Save the Children, sarebbero almeno due i minori uccisi nella giornata di lunedì 22 marzo dalle forze di sicurezza, che porterebbero a 20 il numero totale di bambini e ragazzi assassinati dal 1° febbraio, data del colpo di Stato. In particolare, il 14enne di Mandalay, riferiscono dall’organizzazione, sarebbe stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre era dentro o intorno a casa sua, senza alcun coinvolgimento diretto nelle proteste di resistenza.

«Estremamente allarmante», per Save the Children, «il numero crescente di morti tra i bambini e gli adolescenti». E si teme anche per la sicurezza di «almeno 17 minori – tra cui una ragazzina di 11 anni – che sarebbero detenuti arbitrariamente». Al 22 marzo, l’organizzazione e i suoi partner hanno registrato un totale di 146 casi di arresti o detenzioni di minori. Oltre a questi bambini e adolescenti detenuti, altri manifestanti, molti dei quali giovani studenti, continuano a essere arrestati: secondo le ultime stime sono circa 488 gli studenti attualmente detenuti, di cui almeno 20 sono delle scuole superiori ma alcuni di loro potrebbero anche avere meno di 18 anni. «Siamo inorriditi dal fatto che i bambini continuino a essere tra gli obiettivi di questi attacchi fatali contro manifestanti pacifici», si legge in una nota diffusa da Save the Children, che definisce «particolarmente preoccupante» la morte del ragazzo di 14 anni ucciso mentre era in casa, «dove avrebbe dovuto essere al sicuro. Il fatto che così tanti minori vengano uccisi quasi quotidianamente mostra un totale disprezzo per la vita umana da parte delle forze di sicurezza».

Uccisa nella sua casa ieri, 23 marzo, nel sobborgo di Chan Mya Thazi, sempre a Mandalay, anche una bambina di 7 anni. Il quotidiano locale “Myanamr Now” riferisce che i soldati hanno sparato a suo padre ma hanno colpito la piccola, sulle sue ginocchia. È la vittima più giovane della repressione in corso. È stata identificata con il nome di Khin Myo Chit. Una squadra di soccorso si è precipitata per soccorrerla ma non è riuscita a salvarle la vita.

La notizia è stata confermata anche da Save the Children International. L’invito che arriva dalla ong è a «fermare del tutto la violenza contro tutte le persone nel Paese»: l’unico modo «per proteggere i minori», i cui diritti vengono invece costantemente violate. Lo dimostra anche l’occupazione di oltre 60 scuole e campus universitari in 13 Stati e regioni a partire dal 19 marzo, riferita da fonti locali, secondo cui in almeno un caso, le forze di sicurezza hanno picchiato due insegnanti mentre entravano nei locali e lasciato molti altri feriti.

24 marzo 2021