Morto David Bowie: nel ’77 voleva cantare al Colosseo

L’artista inglese si è spento all’età di 69 anni dopo 18 mesi di lotta contro il cancro. Qualche giorno fa l’uscita del suo ultimo album: Blackstar

L’artista inglese si è spento all’età di 69 anni dopo 18 mesi di lotta contro il cancro. Qualche giorno fa l’uscita del suo ultimo album: Blackstar 

Se n’è andato a due giorni dall’uscita di “Blackstar”, il suo ultimo album, dopo 18 mesi di lotta contro il male che lo ha ucciso a 69 anni. David Bowie se n’è andato sull’onda del freejazz, l’ultimo genere masticato, assorbito, risputato come fosse cosa nuova. Solo i fatti hanno “costretto” quest’ultimo album a diventare il testamento artistico di questo inglese «troppo inglese», come si definiva, che di generi musicali, nella vita, ne ha mangiati e risputati a bizzeffe. Come nuovi. Lui che è stato Ziggy Stardust, l’alieno venuto dallo spazio a indicare e distruggere vie nuove e vecchie della musica “terrena”, da sempre ha indossato al contrario i panni del camaleonte.

Il 1967, anno del suo primo album, lo ha visto nella schiera degli autori europei con l’America in testa. L’America impegnata dei Dylan, dei Cohen. L’America contro. Non dura tanto. Arrivano i ’70, scompare l’impegno. Su un punto resta coerente: essere contro. Continuerà ad esserlo per tutta la sua carriera. Distrugge dogmi e, nonostante se stesso, ne crea di nuovi che gli altri cercano di seguire religiosamente, fallendo.

Nel 1977 Bowie è a Roma. Non si fanno concerti in Italia in quegli anni. Toppo piombo, troppo sangue. Solitamente le grandi star della musica tenevano delle conferenze stampa, registravano qualche presenza in alcune trasmissioni televisive e poi andavano via. In quella occasione lo incontrò il critico musicale del Corriere, Mario Luzzato Fegiz che gli chiese la differenza tra il rock and roll degli anni ’50 e il punk anni ’70. Bowie rispose senza giri di parole: «Negli anni ’50 il rock and roll era il canto dei giovani che dicevano: abbiamo soldi, lavoro, siamo felici e ce ne andiamo di casa e ci ribelliamo, con la forza del denaro, ai nostri genitori. Il punk significa invece: siamo poveri, brutti, arrabbiati e senza prospettive». Roba da enciclopedia.

Una prospettiva però, in quell’occasione, riuscì ad immaginarsela Bowie. Anzi se l’augurò proprio. Avrebbe voluto organizzare un concerto all’interno del Colosseo: un’esibizione aperta a tutti, gratis. Sarebbe stata l’apoteosi del suo punk: “no future” tra le rovine del passato. Poi arrivarono gli anni ’80, l’esperienza di Berlino, la disintossicazione dagli eccessi. Ma non cercherà l’ascesi come un monaco buddista, nonostante fosse stato molto vicino a quella religione.

Assumerà anzi quasi tutti i tratti della rockstar glam e inarrivabile. I suoi tour diventano magnifici spettacoli scintillanti, lontano anni luce dalle buie e ammuffite cantine underground inglesi. Bowie fa cinema, sperimenta, cambia ancora. Inizia ad allontanarsi dalla scena. Centellina le apparizioni, cerca nuove sonorità. In Italia apparirà per l’ultima volta nel 2002. Dopo aver pubblicato alcune antologie, il suo ultimo album, il ventisettesimo, esce il giorno del sessantanovesimo compleanno dell’artista.

Su Twitter, tanti i messaggi di cordoglio, i ricordi. È stato il figlio a confermare, proprio sulla piattaforma social, la morte di Bowie. Alle centinaia di migliaia di tweet si è aggiunto, poco fa, anche quello del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la Cultura. Cinque semplici righe tramite le quali il porporato augura “buon viaggio” all’artista prendendo in prestito le parole di Space oddity del 1969: «may God’s love be with you».

 

 

11 gennaio 2016