Mortalità infantile, al Sud 30% in più

I dati Sip dopo i casi recenti: assistenza medica varia secondo la regione. De curtis (Umberto I): «Tutti i bambini dovrebbero essere uguali»

I dati Sip dopo i casi di Catania, Napoli e Trapani:  l’assistenza medica varia da regione a regione. De curtis (Umberto I): «Tutti i bambini dovrebbero essere uguali»

Nascere al sud non è lo stesso che venire al mondo al nord. Secondo i dati della Sip, la Società italiana di pediatria, la mortalità infantile è del 30% più alta nelle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali. In pochi giorni tre bambini hanno perso la vita: a Catania una neonata è morta perché i tre ospedali della città non avevano un posto libero di terapia intensiva per lei; a Napoli una bambina di otto mesi con problemi respiratori è deceduta subito dopo essere stata dimessa; a Trapani, invece, i medici hanno scambiato la meningite di Daniel, due anni, per influenza. «Questo conferma quello che denunciamo da tempo», afferma Stefano Semplici, presidente del Comitato per la bioetica della Sip e di quello internazionale dell’Unesco: «La nostra organizzazione sanitaria è inadeguata».

Lorenzo, invece, aveva due mesi quando a Taranto gli è stato diagnosticato un tumore del tronco dell’encefalo. In Puglia, però, nessun ospedale aveva i mezzi per curarlo. Così, il dottor Oronzo Forleo, primario di neonatologia all’ospedale Santissima Annunziata di Taranto, consigliò la famiglia di recarsi al Meyer di Firenze. Lì il piccolo ha subito 25 interventi, ha perso la vista ma ha avuto sempre al suo fianco i genitori. Per tutto il tempo della convalescenza la Regione Toscana ha offerto loro un alloggio. «Lorenzo ci ha lasciato un anno fa, ma senza le cure ricevute non avrebbe potuto vivere cinque anni con la sua mamma e con il suo papà – racconta Forleo -. A Taranto sarebbe morto subito».

A mancare al Sud è prima di tutto il personale, come racconta Forleo: «Nel nostro ospedale siamo cronicamente sotto organico: sei medici per un intero reparto. Da noi nascono 2.000 neonati all’anno, di questi 500 hanno bisogno di un ricovero. Sono bambini che hanno malformazioni e tumori. Non dimentichiamo che a Taranto c’è l’Ilva e secondo il rapporto Sentieri dell’Istituto superiore di sanità il tasso di mortalità infantile per tumori o malattie respiratorie è del 21% più alto rispetto alla media regionale. Cerchiamo di garantire la migliore assistenza possibile ma siamo stanchi e non possiamo andare avanti ancora per molto. Dal premier Renzi sono arrivate solo promesse e nessun fatto». Così, l’unica soluzione è trasferire i piccoli altrove: «Ci sono genitori che non possono lasciare il lavoro per stare vicino ai figli ricoverati in altre città. Non hanno neanche i soldi per la benzina», spiega Forleo.

Nel Lazio la situazione non è migliore, come racconta Mario De Curtis, direttore dell’unità di neonatologia all’Umberto I di Roma. «Lo scorso anno 96 bimbi venuti al mondo prematuri negli ospedali di Roma sono stati trasferiti per mancanza di posti letto, 57 sono nati da parto plurimo e 14 di questi sono stati separati dal gemello. Secondo gli standard internazionali ci dovrebbe essere un posto di terapia intensiva ogni 750 nati, nel Lazio ce n’è uno ogni mille. Ne mancano venti. Inoltre, spesso i trasferimenti causano un peggioramento della prognosi».

Così, un neonato che nasce in Toscana è sottoposto allo screening metabolico allargato che consente di diagnosticare precocemente più di 40 patologie rare. Non si ha la stessa fortuna in Campania, dove vengono eseguiti solo i tre test obbligatori per legge (ipotiroidismo congenito, fibrosi cistica e fenilchetonuria). Nel Lazio e in Sicilia la situazione varia di ospedale in ospedale. Non va meglio con i vaccini: solo in Puglia, Basilicata, Veneto e Toscana i bambini sono vaccinati gratuitamente contro il meningococco B che può causare meningiti e l’amputazione di arti.

Neanche morire è uguale in tutte le regioni.In Italia 15mila minori, da 0 a 17 anni, affetti da tumori o da patologie inguaribili, hanno bisogno di cure palliative. «Molti di questi bambini muoiono in condizioni inadeguate, senza il dovuto sollievo dai sintomi dolorosi – afferma Marcello Orzalesi, ex primario di terapia intensiva neonatale all’ospedale Bambino Gesù di Roma -. Trascorrono lunghi periodi in ospedale, anche quando sarebbe possibile una assistenza domiciliare». I dati nazionali lo confermano: 1 milione e 600mila giornate di degenza ospedaliera all’anno, di cui 580mila in reparti di terapia intensiva. «Quando la famiglia sceglie di portare il bambino a casa deve farsi carico di spese economiche spesso insostenibili». E questo nonostante la legge 38 del 2010 obblighi le Regioni a creare una rete territoriale capace di offrire su tutto il territorio cure palliative e terapie del dolore. Attualmente l’unica che si è adeguata è il Veneto, dove è presente un hospice pediatrico.

È una Italia divisa in due dove l’assistenza medica varia a seconda della regione nella quale si vive. «Tutti i bambini dovrebbero essere uguali – afferma De Curtis -. Da un lato, grazie allo sviluppo delle conoscenze mediche e delle tecnologie, siamo in grado di far sopravvivere i minori in condizioni gravissime, dall’altro ne abbandoniamo molti altri per una cattiva organizzazione sanitaria». (Maria Gabriella Lanza)

17 febbraio 2015