Monsignor Venier, 45 anni fa con lui nasceva Roma Sette

La passione per la comunicazione e la cultura. L’impegno a Monteverde per salvare gli ebrei dalla furia nazista. Il forte legame con il “suo” Friuli

C’è un «solido friulano» (così lo definiva il cardinale Ugo Poletti) alle radici di Roma Sette, il settimanale della diocesi in edicola con Avvenire. Monsignor Elio Venier 45 anni fa accettò la sfida di creare uno spazio in cui la Chiesa diocesana potesse raccontarsi con il «noi»: «Alla voce dei singoli», scriveva nel primo editoriale sull’inserto all’epoca indicato con il numero anziché con la lettera, «noi preferiamo la voce della comunità operante. La voce degli individui può essere interessata o artefatta. La voce della comunità, la voce del Popolo, è proverbialmente la voce di Dio». Era il novembre di un anno importante per la Chiesa che è in Roma: il 1974.

Nel febbraio di quell’anno si era svolto un convegno dal titolo “Le responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e di giustizia della diocesi di Roma”, passato alla storia come il “Convegno sui mali di Roma”. Una intera comunità era stata capace di coniugare denuncia delle carenze della città e assunzione di responsabilità per il suo futuro. Tra le risposte venute da quel convegno ci fu anche la nascita del settimanale che il cardinale Poletti definì al suo esordio quale «strumento e segno di comunione e di vitalità», mentre si era nella immediata vigilia dell’anno giubilare 1975. Nel numero successivo Venier scrisse nel suo editoriale: «è necessario conoscere gli altri e il bene degli altri per imparare, per credere (ossia per aver fiducia), per sostenersi, per superarsi: giacché una comunità credente non è mai arrivata, è sempre in cammino, sempre in ascolto, sempre in tensione, perché lo Spirito che la anima è inesauribile». La serie dei suoi editoriali dal 1974, raccolti in tre volumi, rappresenteranno sempre una chiave di indagine importante per chi volesse ricostruire la storia di Roma e della Chiesa in quegli anni nella capitale.

Prete, giornalista e comunicatore, don Elio è stato portavoce dei cardinali vicari Luigi Traglia (1965-1968), Angelo Dell’Acqua (1968-1972) e Ugo Poletti (1973-1991), punto di riferimento di tanti giornalisti cattolici (fu assistente spirituale dell’Unione cattolica stampa italiana, Ucsi), e per oltre trent’anni direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. A partire dal 1952 fu anche guida della sua cara arciconfraternita di Sant’Eligio dei Ferrari, una nuova famiglia che lo ha accompagnato per oltre 50 anni.

Ma la sua storia comincia il 3 agosto 1916, nel pieno della Prima guerra mondiale, a Zuglio, nella Carnia, al confine nord-orientale. Una terra bella e dura, attraversata dalla guerra e da tanta sofferenza. A quella terra don Elio, pur diventato profondamente romano e innamorato della Capitale, è sempre rimasto legato, come a dire che all’anima non basta una sola radice. In quella terra è sepolto, anche se non si sa dove, un suo fratello, Nando, che dopo aver combattuto in Russia, fu inghiottito dalla guerra dalle sue parti lasciando per decenni la famiglia nell’incertezza della sua fine. A Nando, che probabilmente venne ucciso e seppellito in una fossa comune nel giugno 1943, don Elio dedicò varie poesie, ed in una all’inizio degli anni Novanta scrisse: «Più non tornerai. / Nessuna sa dirmi / in quale fossa comune, sotto quale / vegetazione umanamente concimata, / fra quanti scheletri ormai consumati / ancora non giunti all’età d’oro della risurrezione, tu, da cinquant’anni, / riposi e serenamente vivi… ».

Il legame con la Carnia è vivido in un suo volume di poesie (“Dal cielo di Roma al verde della Carnia”, 2000), ma fu fortissimo nel 1976, dopo il terribile terremoto che colpì il Friuli Venezia Giulia. Don Venier si precipitò a vedere la sua terra devastata e lui, ormai romano, si prodigò perché si creasse un legame speciale con Roma. Al ritorno da un viaggio per verificare l’entità delle rovine descrisse in un suo editoriale quel che aveva visto ad Osoppo, una delle località più danneggiate dal sisma: «Della chiesa di Santa Maria della Neve è rimasto in piedi l’abside orribilmente mutilato e tutto il resto – colonne, fregi, santi, intonachi affrescati – è un cumulo di detriti». Ma la sua tempra si rivelò subito nell’immediato impegno: «La percorriamo lentamente per un primo contatto con questi nostri fratelli che la diocesi di Roma si è impegnata di seguire, assistere, aiutare, mettendosi a disposizione della comunità…Roma porterà quassù quello che può. Importante che ci porti tanto cuore».

Venier aveva completato la sua formazione al Seminario Romano Maggiore, e, nato nel cuore di una guerra mondiale, si ritrovò ad essere ordinato sacerdote alla vigilia dell’ingresso dell’Italia in un’altra. L’ordinazione, infatti, avvenne il 3 febbraio 1940, e quattro mesi dopo l’Italia fascista scese in guerra al fianco della Germania di Hitler. Ma in quegli anni, nel silenzio assoluto e nel nascondimento, don Elio contribuì a scrivere pagine gloriose di carità e giustizia, come viceparroco di Santa Maria Madre della Provvidenza, in via di Donna Olimpia, alle falde di Monteverde, quartiere in cui abitava una parte della comunità ebraica romana.

Dalla fine del 1943 al momento della Liberazione don Elio, col suo parroco, don Fernando Volpino, diedero rifugio ad una settantina di ebrei braccati dalla furia nazista. Alcuni furono ricoverati in alcuni stanzoni al piano superiore della casa del parroco. Due o tre donne uscivano a fare la spesa ogni giorno, altri aiutavano in cucina e lavanderia, talvolta si poteva prendere una boccata d’aria in sicurezza in un cortiletto dietro la parrocchia. «Non siamo certo andati a raccontarlo in giro – ha raccontato don Elio -. Nessuno si aspettava applausi. Nemmeno dopo la guerra ne abbiamo parlato come qualcosa di particolare. Fu tutto assolutamente naturale. Si aiuta chi ne ha bisogno».

Dopo quella stagione don Elio visse quella del Concilio, confidando alle pagine del suo primo libro la speranza nella nuova stagione che cercava di comunicare nei commenti ai Vangeli destinati al laicato (“Cristianesimo è ottimismo. Riflessioni sui Vangeli festivi per i laici”, 1963). A metà degli anni Sessanta il suo coinvolgimento con il mondo delle comunicazioni era già pieno, e alla fine del decennio raccolse una serie di testimonianze sul ruolo dei suoi confratelli nel periodo della guerra (“Il Clero Romano durante la Resistenza. Colloqui con i protagonisti di venticinque anni fa”, 1969).

L’anno in cui prese la guida di Roma Sette fu anche quella della pubblicazione di un suo libro sul primo decennale di Papa Montini quale vescovo di Roma (“Paolo VI vescovo di Roma. I dieci anni del suo pontificato romano”, 1974) ma non può essere questa la sede per ripercorrere il suo grande impegno editoriale che produsse oltre trenta libri.

Come ogni uomo saggio, avvicinandosi alla fine, prese a considerare cosa lasciare alle generazioni dopo di lui. Decise di donare la sua biblioteca, formata da decine di migliaia di volumi, al centro culturale della Pieve di San Pietro in Carnia, a tre chilometri dal suo paese natale Zuglio, in provincia di Udine. E in un testamento spirituale redatto nel 2010, scrisse: «La mia speranza si chiama Gesù, Gesù il Cristo, meraviglioso Maestro, compagno di vita, voce di salvezza per una umanità degna di se stessa e del suo passaggio su una terra meravigliosa… al di là di questo punto di partenza e di arrivo, la mia riconoscenza non ha limiti».

Monsignor Elio Venier si spense il 19 giugno 2011, al termine di una esistenza tesa sempre ad aprire orizzonti nuovi, mai stanco di guardare al futuro. La sua vita e la sua opera meritano ancora tanti approfondimenti.

4 novembre 2019