“Mondi”: i versi crepitanti di Gertrud Kolmar

L’autrice, ebrea tedesca, nata a Berlino nel 1894, morì ad Auschwitz. La raccolta pubblicata nel 1947 in una Germania ancora invasa dalle macerie e sconvolta dalla guerra 

Non c’è forse nella poesia del Novecento altra rievocazione del sentimento materno più intensa di quella che Gertrud Kolmar ci consegnò nei versi di Fruchtlos, tradotti in lingua italiana da Margherita Carbonaro e Anna Richat, come Senza frutto, compresi in Mondi (Mondadori, introduzione, lucida e appassionata, di Helena Janeczek), la raccolta pubblicata nel 1947 dalla casa editrice Suhrkamp, in una Germania ancora invasa dalle macerie e sconvolta dalla guerra.

L’autrice, ebrea tedesca cugina di Walter Benjamin, nata a Berlino nel 1894, morì ad Auschwitz. Ebbe una vita breve: maestra d’asilo e istitutrice, esperta nell’istruzione ai sordomuti, educò i figli altrui, senza poter godersi il proprio, in seguito all’aborto a cui l’avevano costretta i familiari, dopo che lei, innamorata di un ufficiale tedesco, era rimasta incinta. Quel figlio perduto restò come un vecchio faro interiore dentro l’anima desolata della poetessa, al punto tale da illuminare con fasci di luce taglienti le tenebre che presto l’avvolsero fin quasi a paralizzare ogni suo istinto di fuga dal nazismo. «Dall’oscurità io vengo, una donna. / Porto un bambino e non so più di chi sia; / un tempo lo sapevo. / Ma ora non c’è più nessun uomo per me… / Tutti si sono inabissati alle mie spalle come rigagnoli / bevuti dalla terra»: così aveva scritto qualche pagina prima. Poi, più centralmente nella poesia che abbiamo citato all’inizio: «Vedo. Sento: / dalla porta chiusa entra silenzioso / un bambino. / L’unico destinato a me e che non ho partorito – / che non ho partorito a causa dei miei peccati; Dio è giusto».

I versi di Gertrud Kolmar bruciano crepitanti come candele nell’androne di una casamatta, ultima resistenza capitale della maternità violata: «Taccio, e non mi lamento, porto e nascondo la sua testa, / e così posso cercarlo / certe sere». La madre, mancata, guarda giocare suo figlio mai nato. Ma come lo pensa? Allo stesso tempo vicino e distante, ferito eppure ai suoi occhi ancora vivo: «Un ragazzino. / Solo lui, questo essere delicato, muto e implorante, dai / ricci soffici e scuri, /sotto la fronte brunastra occhi stranieri, grigioverdi e / marini, di colui che ho amato, che amo sempre».

Nei versi seguenti la scrittrice inchioda con implacabile precisione fantastica la memoria del giovane incompiuto che non mostra timore di avvicinarla: le porta una biglia («quella scura con le venature / dorate, detta occhio di tigre»), un fiore, («pallido narciso») e una conchiglia rossastra. «La solleva / gentilmente al mio orecchio e io ascolto il suo scrosciare». La madre e il figlio, così riuniti, ci riconducono alla “notte germinale” nell’amore col compagno smarrito alla sorgente della vita. Il finale è una scure sull’ultima memoria vitale: «Guarda come piange tua madre… / Anche tu morirai. / Domani prenderò una vanga, andrò sotto i cespugli / ricoperti di neve e ti seppellirò».

19 novembre 2023