Monaci dell’Atlas, umiltà e Vangelo nella fratellanza

La loro beatificazione, l’8 dicembre prossimo, ci rimanda alla necessità e al dovere di sperare contro ogni speranza, e di vivere senza mai cedere alle intimidazioni del male

A San Bartolomeo all’Isola Tiberina, santuario dei martiri del XX e XXI secolo, nella cappella che raccoglie le memorie dell’Africa è esposta una lettera autografa di Frère Christian De Chergé, priore del monastero di Notre Dame dell’Atlas, la cui vita è stata recisa insieme ad altri sei confratelli trappisti nel maggio 1996 nel quadro durissimo della guerra civile algerina. È una pagina in sintonia con il suo testamento, ove rende ragione del radicamento profondo nell’amore disarmato per il Vangelo, financo per il suo persecutore, nella fraternità con i musulmani e nella visione pacificatrice del regno.

La comunità monastica di Tibhrine vive all’unisono la scelta operata dal cardinale Duval: fecondare, da minoranza fragile, il Paese frutto dell’indipendenza sancita nel 1962 e segnata dall’allontanamento di francesi e altri europei. Una Chiesa quindi povera e umile, testimone di preghiera e di empatia per tutti, nella fraternità e nell’accoglienza. Questa scelta si rivela nei monaci dell’Atlas, quale è: Ribat es Saam; “vincolo di pace”. Amicizia profonda e incontri periodici scandiscono la ricerca e il dialogo, nell’intreccio con la vita, le sofferenze, le speranze dei musulmani dei dintorni, del villaggio di Medea e di quanti sentivano l’«adozione» di questi uomini di preghiera, capaci di rivelare il volto amico dei cristiani.

È dimensione spirituale e quotidiana, che ha reso Christian De Chergé, l’anziano Luc Dochier, Christoph Lebreton, Michel Fleury, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard e Paul Favre–Miville, riferimento per molti anche nella bufera degli scontri. L’Algeria infatti ha conosciuto una violentissima guerra civile, l’aggressione del Gia e la repressione militare. Una violenza pervasiva, una tenaglia, che i monaci hanno fronteggiato con l’umiltà e la tenacia della fede. Le ragioni della speranza sono state tenute vive fra le mura del monastero e fuori di esso, senza mai sottrarsi al soccorso e all’incontro con tutti, anche a chi ferito fra gli «uomini della montagna e gli uomini della pianura» (come venivano indicati da Frère Christian gli antagonisti che si combattevano), bussava alle sue porte. Se la spiritualità della condivisione è tema sorgivo in Charles de Foucauld, Frère Christian, nel tormentato teatro di scontro algerino degli anni di conflitto, vi accosta quello della riconciliazione e della misericordia.

La Giornata mondiale di preghiera per la pace convocata da san Giovanni Paolo II ad Assisi nell’ottobre del 1986 rappresentò per il priore un motivo di conforto e di conferma. La presenza cristiana in Algeria e la loro stessa testimonianza – diceva in una omelia – è vocata a «creare ponti e distruggere barriere; preparare qualcosa di nuovo e crederlo possibile…acconsentire al fatto che la nostra sola presenza abbia senso e valore di riconciliazione». Il martirio, quale prezzo di amore e di fedeltà a questa visione, era eventualità sempre più chiara, confermata dal tributo di sangue già versato in quegli anni da altri religiosi e religiose, come da chi morirà successivamente, insieme al vescovo Pierre Claverie.

La beatificazione di tutti loro, l’8 dicembre prossimo, ci rimanda alla necessità e al dovere di sperare contro ogni speranza, e di vivere senza mai cedere alle intimidazioni del male, che vorrebbe spezzare i legami fra i popoli, gli uomini, le donne, i credenti di ogni fede religiosa. La vita e la loro morte ci restituiscono la forza umile del Vangelo, che non è meno vera nella sconfitta della morte, ma rimanda al paradosso cristiano della croce. Uomini venuti dall’Occidente, ma radicati in terra di Algeria, resi universali nell’amore e nel martirio, testimonianza estrema di fedeltà alla vita, secondo il Vangelo. (Monsignor Marco Gnavi, incaricato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso).

 

26 novembre 2018