Migranti. “Sophia” è fallita? Ecco la missione che fa litigare Roma e Berlino

«Sbarcano gli immigrati in Italia»: per Salvini nessun problema se la Germania se ne va. Per il Parlamento Uk «una missione fallita». Ma come ha funzionato la missione navale Ue nel Mediterraneo? Dal rapporto con le ong all’addestramento della Guardia costiera libica

I primi documenti confidenziali, figli della riunione a porte chiuse del 12 maggio 2015  a Bruxelles, escono due settimane più tardi rilasciati da Wikileaks. Dentro si definivano gli obiettivi, si ringraziava l’Italia per l’offerta di un Quartier Generale Operativo (Centocelle, Roma) e si parla di «non pubblicizzare le operazioni di soccorso» che inevitabilmente si sarebbero dovute effettuare nel pattugliare la rotta del Mediterraneo centro-meridionale. Ciò «per evitare di fornire un incentivo ai migranti». Si parla anche di coordinare «una strategia d’informazione» interna ai Paesi Ue per «evitare di suggerire che l’operazione sia rivolta al salvataggio dei migranti sottolineando che lo scopo dell’operazione è quello di distruggere il modello di business del contrabbando. In tal modo l’operazione contribuirà indirettamente a ridurre le perdite di vite umane». Qualunque cosa pensi il ministro dell’Interno Matteo Salvini dell’operazione “Sophia”, che oggi è motivo di tensione fra cancellerie europee, la flotta del dispositivo miliare Ue Eunavfor non è mai stata una missione di salvataggio in mare. Berlino ora minaccia di ritirarsi alla prossima scadenza nel marzo 2019. Il vicepremier leghista risponde a distanza che il mandato era «di far sbarcare tutti gli immigrati solo in Italia e così ha fatto, con 50 mila arrivi nel nostro Paese. Se qualcuno si fa da parte, per noi non è certo un problema».

Le “parole d’ordine” di Sophia. Tutt’altro: contrasto al traffico di esseri umani e smantellamento nel modello di business dei trafficanti in Libia, anche catturando e distruggendo le imbarcazioni utilizzate da facilitatori e scafisti; contributi all’embargo sulle armi da e per la Libia; addestramento e monitoraggio di Guardia costiera e Marina libiche; raccolta informativa sul contrabbando di petrolio e scambio informativo con gli Stati membri dell’Unione, partner internazionali (Nato, Nazioni Unite, Unione Africana, Lega Araba), Stati terzi (Egitto, Tunisia e quando possibile il Governo libico riconosciuto) e agenzie di sicurezza comunitarie e internazionali (Europol, Interpol, Eurosur, Eurojust, Frontex). Sono queste le parole d’ordine di “Sophia” che il 22 agosto 2015, a due mesi dal suo inizio, viene ribattezzata così. Con il nome di una bambina nata sulla nave militare tedesca Schleswig-Holstein nel corso di una operazione di soccorso.

Tre anni e mezzo dopo, le promesse di Eunavfor Med sono state mantenute? “Una missione fallita” è il titolo che la Camera dei Lord del Regno Unito gli ha riservato in un report del luglio 2017. Dopo che già l’anno precedente il parlamento britannico ha definito gli obiettivi della missione come «una sfida impossibile», pur continuando a integrare il dispositivo con risorse finanziarie, forze di intelligence e assetti navali. In quei mesi i flussi non sono ancora calati, i morti in mare proseguono e il destino di “Sophia” sembra segnato. Eppure a scavare nei documenti e nelle audizioni dei suoi uomini alle commissioni parlamentari, di informazioni interessanti se ne trovano. Per esempio nel primo report semestrale, quando il modello di business dei trafficanti viene stimato fra i 250 e i 300 milioni di euro all’anno, pari al 50 per cento dell’intera economia locale per alcune città della Tripolitania. Mostrando così indirettamente come, senza alternative sociali serie, in Libia continuerà a proliferare una microeconomia al dettaglio e un’economia di scala, legate entrambe alle migrazioni prima e alla detenzione adesso. Oppure quando dallo stesso documento emerge come, nella tratta, rivestano un ruolo cruciale i gommoni tubolari di fabbricazione cinese importati in nord Africa attraverso Malta e Turchia. «Che i gommoni siano stati importati dalla Cina verso Malta e la Turchia – si legge a pagina 9 – è supportato dalla recente intercettazione da parte della dogana maltese di 20 di questi, impacchettati, in un container destinato a Misurata, in Libia». Un punto su cui Aaron Farrugia, il Ceo del porto franco di Malta, il Malta Freeport Terminals, ha preferito non rispondere alle domande che gli sono state rivolte.

Scrive ancora la missione navale Ue (calcata sul modello dell’Operazione “Atlanta”, che da anni combatte il fenomeno della pirateria in Somalia e nel Corno d’Africa) che il 27 agosto 2015 è il ritrovamento di numerosi cadaveri, vittime di un naufragio, lungo le spiagge a scatenare le proteste di massa da parte dei cittadini di Zuawarah. Un evento che porta alla reazione delle autorità locali, costringendo le organizzazioni criminali del contrabbando a trasferire le proprie attività fuori dal centro della città costiera. Un fatto inusuale, che mostra l’altro volto di una società civile libica invisibile, che vede narrato il proprio popolo a livello internazionale come un esercito di aguzzini, trafficanti, carcerieri e torturatori di migranti.

Nel frattempo Eunavfor Med-Operation Sophia prosegue le proprie attività. Il 27 ottobre 2016 parte la fase operativa del training militare ai libici: 93 fra ufficiali e sottufficiali vengono addestrati per 14 settimane su mezzi dell’Eunavfor con l’appoggio di due professori di inglese e otto interpreti. Prima a bordo della fregata italiana “San Giorgio” e di quella olandese “Rotterdam”, poi a Gaeta con l’ausilio della Guardia di Finanza. E infine sulle isole di Creta e Malta. Il tutto con ritardi. Perché a settembre di quell’anno a Misurata – il porto da cui partono i cadetti libici per l’addestramento – è di stanza anche il quartier generale delle forze che combattono per liberare la città di Sirte dall’occupazione dell’Isis; e perché in un’occasione i militari disertano l’addestramento per protestare contro il mancato pagamento degli stipendi, mentre la cellula di intelligence di Eunavfor Med, retta da un finlandese e da un ufficiale di operazioni spagnolo, verifica la lista dei primi 93 nominativi forniti da Tripoli – a rischio di collusione con i trafficanti -, incrociando le loro generalità e storie con le indicazioni provenienti da vari servizi di informazione europei. I cinque nomi su cui ricadono dubbi vengono lasciati casa. Il programma di addestramento è suddiviso in moduli di quattro settimane. A bordo della “Rotterdam”, del training si occupano le marine olandese, britannica, tedesca e greca. Insegnano ad abbordare navi, perquisirle, riparare i guasti meccanici, spegnere incendi. Sulla “San Giorgio” si punta sulle basi della navigazione astronomica e i principi del carteggio nautico. Nella seconda fase è il turno di Frontex e della Guardia costiera italiana con lezioni teorico-pratiche sul diritto internazionale, i confini, l’attività di ricerca e soccorso. Nel terzo modulo, l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu svolge un addestramento sui diritti umani. Fra le altre attività, l’insegnamento della navigazione sotto costa e d’altura, le telecomunicazioni, il primo soccorso, la vigilanza sulla pesca. Tutti aspetti di cui il governo italiano fa oggi un vanto, pur mantenendo atteggiamenti stizziti nei confronti dell’operazione Ue.

Il 6 aprile 2017 l’ammiraglio italiano Enrico Credendino, capo in comando dell’operazione, si reca alla Commissione Difesa del Senato e fornisce le cifre: 414 imbarcazioni distrutte o sequestrate, 109 persone consegnate alla giustizia italiana e l’11,8 per cento dei salvataggi effettuati, pochi se raffrontati con i numeri di Guardia costiera italiana e ong. Proprio con le organizzazioni non governative il rapporto vive di luci e ombre. In un report riservato che non doveva essere reso pubblico, Eunavfor Med le accusa di essere la causa dell’utilizzo di gommoni fatiscenti da parte dei trafficanti. Perché gli “umanitari” starebbero troppo vicini alle coste, rendendo vantaggioso l’utilizzo di imbarcazioni precarie e di scarso valore, in grado di percorrere non più di 50-60 miglia. Un risparmio, quindi, per le organizzazioni criminali. Le ong rispondono a loro volta: è l’operazione “Sophia” a provocare l’utilizzo dei gommoni mortali. Perché se l’unica strategia è affondare, addirittura in loco, i pescherecci, le chiatte e la barche in vetroresina per impedire ai clan di riutilizzarle, questo ha fatto schizzare i prezzi delle imbarcazioni nel mercato dell’usato in nord Africa dove si riforniscono le organizzazioni. È, banalmente, la legge della domanda (i migranti) e dell’offerta (le barche).

Nonostante gli attriti, militari e volontari si incontrano. Più volte. Nell’ambito dei Forum Shade-Med organizzati proprio dalla flotta europea, come quello del 12-13 maggio 2016, che vede la partecipazione di 175 rappresentanti di 74 organizzazioni diverse fra governi, forze armate e ong (l’ultimo è in corso in queste ore), dove si riesce a far sedere allo stesso tavolo addirittura attivisti delle organizzazioni dedite al salvataggio dei migranti e uomini della Guardia costiera libica. E nei mesi in cui Medici senza frontiere, Sea Watch e tutte le altre sono nell’occhio del ciclone con accuse quotidiane lanciate da magistrati e politici, è di nuovo “Sophia” a giungere in loro involontario soccorso. Mentre tutti accusano le ong di “oscurare” la propria posizione spegnendo i transponder alle navi, per poi darsi appuntamento con i trafficanti di uomini, spunta un altro documento dei militari. Dove a pagina 8 si legge che «i trafficanti sembrano essere consapevoli di dove trovare gli assetti navali di salvataggio, in particolare le ong che trasmettono le loro posizioni attraverso l’Automatic Identification System (AIS)». L’Ais, cioè il sistema di tracciamento e identificazione automatica che le navi sono obbligate a montare, in ausilio ai sistemi radar, per evitare le collisioni. Tesi opposta agli accusatori. (Francesco Floris)

24 gennaio 2019