Michele Colosio, «cittadino del mondo»

Il centro d’accoglienza in cui svolgeva il suo servizio ricorda il volontario italiano ucciso in Messico l’11 luglio. Da 10 anni seguiva progetti di cooperazione

Da dieci anni faceva la spola tra Italia e Messico per seguire progetti di cooperazione, Michele Colosio, il volontario italiano originario del Bresciano ucciso domenica 11 luglio a San Cristóbal de Las Casas, nel Chiapas, lo Stato più meridionale del Messico, raggiunto da alcuni colpi di pistola in strada, mentre tornava a casa. Erano circa le 10 di sera. L’alba, in Italia.

42 anni, ex tecnico di radiologia agli Spedali Civili, in Messico Colosio coordinava progetti per l’istruzione dei ragazzi delle zone rurali più povere, attraverso la cura di un piccolo podere e l’allevamento di animali da cortile, nell’ambito delle attività della casa di accoglienza Yìbel Ik’ ‘Raíz del Vientò, che al volontario italiano ha dedicato anche una veglia di preghiera, ieri sera, 13 luglio. «Il suo noto e largo sorriso si è spento – scrivono sulla pagina Facebook -, è rimasto ucciso in un’aggressione, a un isolato da casa sua, di ritorno dai festeggiamenti per la finale dell’Europeo di calcio. Era così felice».

Michele, si legge nella nota del centro d’accoglienza, «è sempre stato cittadino del mondo, ha vissuto in Messico per più di 10 anni e aveva una grande rete di amici, grande quanto il suo cuore. Artigiano, viaggiatore, pastore di capre, contadino, sellaio, meccanico di biciclette e tutto ciò che gli veniva in mente di imparare, Michele in gioventù ha studiato e lavorato come radiologo in un ospedale e il suo cuore e le sue conoscenze lo hanno avvicinato al nostro centro di salute Yìbel Ik’ ‘Raíz del Vientò, oltre a tanti altri progetti sociali, convinto com’era che dobbiamo donare, dobbiamo aiutare, dobbiamo unirci come popolo di fratelli, senza distinzione di lingue, confini e colore della pelle».

L’aggressione costata la vita al volontario italiano è «una delle tante che si verificano quotidianamente nella “città magica” di San Cristóbal, città già in balia di tanti gruppi armati (criminalità comune, criminalità organizzata, narcotrafficanti, paramilitari, sicari in uniforme…) che agiscono grazie all’occhio cieco di tutti i governi e alla corruzione di tutte le forze di polizia. Il marciume istituzionale, la povertà diffusa e l’impunità hanno trasformato questa bellissima città in un inferno, come e più delle migliaia esistenti in questo Paese ferito. Lo denunciamo e resistiamo da anni, non ci fermeremo», scrivono dal centro d’accoglienza.

Una denuncia, quella di Yìbel Ik’ ‘Raíz del Vientò, che si aggiunge a quella della diocesi di San Cristóbal dopo l’uccisione del catechista e attivista indigeno Simón Pedro Pérez López, solo la settimana precedente. Rispetto al Chiapas, dalla diocesi evidenziavano «la riattivazione delle forze che sono mutate da paramilitari a criminalità organizzata, alleate al narco-governo, che hanno invaso il nostro Stato per domare la resistenza dei popoli organizzati che difendono la loro autonomia». E nel violentissimo Messico, rilevano dal Centro católico multimedial, anche i sacerdoti hanno pagato e pagano un prezzo altissimo, con una trentina di uccisioni a partire dal 2012. Ma l’uccisione, spiega all’Agenzia Sir il direttore padre Omar Sotelo, è la punta d’iceberg di un contesto di attacchi, minacce, intimidazioni, assalti e profanazioni alle chiese. «Il tema – afferma – è molto complesso. Ma, in generale, è possibile affermare che da un lato il fenomeno delle violenze e delle uccisioni contro i sacerdoti è connesso alla crescita della criminalità organizzata e dei cartelli del narcotraffico. Secondo le nostre ricerche, nell’80% dei casi i sacerdoti sono vittime della criminalità organizzata, non di delinquenti comuni. Dall’altro lato, nella gran parte dei casi c’è la volontà di colpire la Chiesa come istituzione, per il suo ruolo di stabilizzazione sociale».

14 luglio 2021