«Mia madre»: Moretti, il dolore e la perdita

Nell’ultimo film in sala un inno al superamento della perdita e al cinema, sempre finito e sempre morto, sempre capace di riemergere

In sala l’ultimo film di Nanni Moretti, un inno al superamento della perdita e al cinema, sempre finito e sempre morto, sempre capace di riemergere

È in sala da giovedì scorso il film italiano più atteso di questa primavera: Mia madre, il nuovo titolo di Nanni Moretti. Il dodicesimo di una carriera cominciata nel 1976. Siamo a Roma, oggi. Margherita, di professione regista di cinema, è al lavoro sul suo nuovo copione, storia di un americano che ha appena comprato una società vicina al fallimento e dei forti contrasti messi in campo dagli operai che temono per il posto di lavoro. Ai non pochi problemi sul set si aggiungono quelli derivanti dalla situazione dell’anziana mamma, ricoverata in ospedale per un aggravarsi dello stato di salute. Margherita si tiene in contatto con il fratello Giovanni, entrambi si alternano a confortare la degenza della mamma Ada. Dopo alcuni imprevisti, tutti si ritrovano riuniti nella casa della anziana signora.

C’è un’attesa carica di senso che accompagna la vicenda verso la conclusione. In Io sono un autarchico (la sua opera prima, 1976), alcuni studenti preparavano esami universitari e intanto cercavano di capire quale poteva essere il ruolo nella società. A raccontare quella realtà c’era appunto Nanni Moretti. Oggi, 2015, qualcosa da raccontare c’è ancora, ma i dieci film girati nel frattempo lo hanno reso più incerto, indeciso, titubante. Al tramonto delle ideologie, l’unica vicenda possibile da raccontare è quella delle perdite provocate dalla crisi: il lavoro, la dignità, l’identità. C’è stato un tempo in cui Nanni era uno «splendido quarantenne». Gli anni sono passati, e lui è arrivato ai sessanta. Forse con qualche timore in più, di sicuro sempre splendido per lo sguardo umbratile, malinconico, dolente che getta sui cambiamenti della realtà: dalla quale vorrebbe uscire per fare una cosa sola, vivere, come è giusto che faccia ancora la madre. Mestiere difficile tuttavia il vivere, non risolvibile chiedendo all’attore di stare fuori e accanto al personaggio.

Dentro La Stanza del figlio (2001) si chiudeva un capitolo senza ritorno, un macigno piombato su qualunque alternativa. Il ricordo della mamma è invece ora affidato al “domani”, a ciò che parla di lei, la sua casa, quell’appartamento borghese così armonioso, pulito, con i libri in ordine, la scrivania generosa di testimonianze, il latino come scrigno di tesori sbiaditi ma preziosi. Dentro una scrittura linguistica di forte lucidità espressiva e di marcato pudore visivo, il film diventa un inno al superamento della perdita e al cinema, che ne è l’esempio fondamentale: sempre finito e sempre morto, sempre capace di riemergere. Un film intenso e stratificato, un gioco sul doppio e sulle “voci di dentro” dopo il quale il silenzio non sarà più per Moretti una scusa plausibile.

20 aprile 2015