Mario Venuti si racconta “al 100%”
Il cantautore, 60 anni e 40 di carriera, torna a esibirsi a Roma: il 25 marzo sarà all’Auditorium Parco della Musica. «Amo quel che sto vivendo». Il Sud America tra i «luoghi dell’anima»
Raffinato e carismatico, Mario Venuti, cantautore e chitarrista catanese dai trascorsi rock (esordio con i Denovo negli anni Ottanta), festeggia come meglio non poteva il doppio traguardo dei 60 anni e dei 40 anni di carriera con una serie di concerti che lo porteranno nella Capitale il prossimo 25 marzo, all’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone (ore 21, Sala Teatro Studio Borgna). L’artista interpreterà i suoi brani più celebri e amati dal pubblico, oltre a diverse canzoni italiane, facendo rivivere emozioni e ricordi legati a intramontabili evergreen. Voce calda, timbro da crooner jazz, capace sempre di creare atmosfere intime ed eleganti, Venuti sarà sul palco con Pierpaolo Latina al pianoforte, Giuseppe Tringali alla batteria e Vincenzo Virgillito al contrabbasso. Lo intervistiamo per una chiacchierata tra bilanci e passioni, mescolando passato e futuro, saudade e fuoco sacro.
A parte i numeri tondi, com’è Mario Venuti al 100%?
Non molto diverso da 40 anni fa, nel senso che mi guida la stessa ricerca: l’ideale estetico. In questo sono rimasto assolutamente identico. Però qualcosa è cambiato, sono arricchito, maturato, ho più padronanza di mezzi espressivi, ricchezza di colori sulla tavolozza. Ho avuto mille possibilità e ne ho ancora tante, ci sono ancora tante cose che vorrei sperimentare.
In questi 40 anni di carriera, quali esperienze ti hanno fatto maturare come artista e come uomo?
Mah, sai, la vita è tutto un lavoro, un mattone oggi, uno domani; tante tappe, tanti incontri. La mia attività è stata costellata da tanti incontri stimolanti con altri artisti, il confronto con i colleghi è sempre importante. Sicuramente penso a Luca Madonia con i Denovo, Carmen Consoli, Battiato, Francesco Bianconi dei Baustelle, Antonella Ruggiero, Kaballà – con cui ormai c’è un sodalizio che dura da più di 20 anni -. Dunque, il punto di incontro tra artista e uomo sono i legami, seppure a fasi alterne. Artisticamente mi piace sperimentare, sperimentarmi, mettermi a volte anche un po’ alla prova perché, quando ci si accomoda troppo, magari su delle formule, si rischia di produrre degli esercizi di stile che mancano di quella forza propulsiva, quella freschezza di ispirazione che viene, almeno a me, solamente quando si tenta di fare cose nuove.
Guardando al percorso fatto, ci sono molte tappe nell’America del Sud, come si percepisce dal tuo repertorio, ma anche dalla tua storia.
Sono luoghi dell’anima più che luoghi fisici. Il Sud America, in fondo, è anche una specie di sogno, ma come sempre i luoghi immaginati sono meglio nei sogni che dal vivo. Ogni luogo ha le sue contraddizioni. Anche l’Italia è più bella per chi la sogna. Però è importante l’affinità che ho trovato con la cultura, con un approccio alla vita, all’amore, all’arte. Mi sono riconosciuto, c’è stata un’affinità elettiva con i grandi cantautori della musica brasiliana perché sono dei grandi poeti. La musica brasiliana, almeno quella classica, la bossa nova, il tropicalismo, ha una componente di leggera malinconia, che loro chiamano “saudade”, però hanno una maniera di esporla, di esprimerla che è sempre molto estroversa, con un grande ritmo, con un grande movimento, una sensualità del corpo, un abbandono del corpo. Ecco, queste due cose messe insieme si confanno con il mio carattere, per questo ho sentito una vicinanza, un’affinità, e quindi quella cultura mi sembrava di conoscerla da sempre.
Lo scorso dicembre è uscito il brano “Paradiso” che anticipa il nuovo album. Tu canti «Io amo quel che sto vivendo», ma lo fai con un pizzico di nostalgia. Cosa c’è nel tuo paradiso?
Per me il paradiso è la vita di ogni giorno, la canzone lo dice chiaramente. «Amo quel che sto vivendo» significa proprio questo, cioè, trovare la felicità nelle piccole cose di ogni giorno, nelle piccole soddisfazioni che riusciamo a guadagnarci in mezzo alle difficoltà, che per carità ci sono, ma non devono ostacolarci. Il mio è un riferimento laico, il paradiso, se vogliamo può essere qui in terra e dobbiamo lottare perché sia qui.
Ci puoi anticipare qualcosa del nuovo album?
Non posso anticipare troppo, ma posso dire che è uno step successivo al precedente che era fatto di cover, ma è più un crossover nel senso che innanzitutto sono canzoni inedite, tre sono già uscite, c’è sempre un pochettino quel retrogusto brasiliano, però è musica italiana. È anche un disco un po’ più elettrico, un po’ più, tra virgolette, rockeggiante. Un ritorno alle origini, però con un modo mio personale abbastanza pacato di fare rock, non urlato.
Come sarà il concerto a Roma?
Mi viene naturale fare anche altre canzoni, oltre le mie. È un concerto che ha un’impostazione anche un po’ jazzistica, perché la formazione è fatta di contrabbasso, pianoforte, batteria. Io suono una chitarra classica, quindi io metto un po’ di bossa nova. Secondo me è un modo anche abbastanza senza sovrastrutture, molto diretto, informale, confidenziale di porgersi al pubblico: non c’è nulla di artefatto, non ci sono basi o sequenze, basi preregistrate, tutto si suona sul momento, tutto molto naturale.
Questo in realtà oggi è anticonformista!
Beh, sì, e ci sono anche dei vuoti, perché non necessariamente bisogna avere l’ansia dell’horror vacui, di riempire tutti gli spazi, perché la musica è fatta anche di pause e di silenzi.
Hai fatto anche un docufilm autobiografico, “Qualcosa brucia ancora”, presentato nel 2022. Oggi, in questo periodo di bilanci, cosa brucia ancora?
Mah, per fortuna quel fuoco sacro che ti fa cercare nuove melodie, cantarle. Spero che questo non si spenga mai perché, se dovesse succedere significa che un po’ sto morendo. Muore un po’ chi non ha più passioni, non ha più entusiasmi, e spero che non mi succeda mai!
8 marzo 2024