“L’ultimo rifugio”, testamento spirituale di Imre Kertész

Lo scrittore ungherese alle prese con la semplice, implacabile, irrefutabile questione del tempo che incenerisce i sogni e mette con le spalle al muro

Lo scrittore ungherese alle prese con la semplice, implacabile, irrefutabile questione del tempo che incenerisce i sogni e mette con le spalle al muro

Imre Kertész, il grande scrittore ungherese, nato nel 1929 a Budapest, deportato ad Auschwitz da ragazzino, premio Nobel per la Letteratura nel 2002, scomparve lo scorso anno dopo una lunga vita prima di stenti, poi di gloria. Leggere i suoi libri di memoria autobiografica, da Essere senza destino a Diario dalla galera e Il secolo infelice, per citare qualche titolo, non significa soltanto ripercorrere la storia tragica del Novecento. Vuol dire anche gettare uno sguardo non effimero sul genere diaristico di stampo antico: un luogo della mente e del cuore che oggi, perfino nella stessa distinzione stilistica, sembra caduto in disuso. Eppure si tratta di un crocevia decisivo della cultura occidentale: da una parte i sistemi universali, protettivi ma molto rischiosi perché sempre pronti a degenerare; dall’altra il tentativo di emancipazione dell’individuo che esce allo scoperto con le sue libere scelte. Da Marco Aurelio a sant’Agostino, da Pascal a Rousseau, il tema resta quello dell’uomo che, privo della maschera romanzesca, fa i conti con se stesso e, specie nella fase estrema dell’esistenza, prova a tirare le proprie conclusioni.

In questa chiave dovremmo avvicinare L’ultimo rifugio. Romanzo di un diario (Bompiani, pp. 279, 20 euro), testamento spirituale di Imre Kertész. Un’opera di innegabile forza riflessiva, quasi anacronistica nella sua radice filosofica. Quale è la condizione della vecchiaia? Avere a che fare con desideri irrealizzabili. A pensarci bene però tale evidenza riguarda tutti, a partire dai più giovani. Ed ecco quindi lo scrittore alle prese con la semplice, implacabile, irrefutabile questione del tempo che ti ruba l’energia vitale, incenerisce i tuoi sogni, ti mette con le spalle al muro. Proprio lui, ebreo perseguitato dai nazisti, costretto all’esilio dai comunisti, si trova a vivere a Berlino, scansando i mostri del passato, alla ricerca di un estremo sussulto espressivo. La cadenza del riscontro quotidiano lo spinge a un confronto serrato con se stesso. Un dialogo interiore che può fare a meno del plauso pubblico: questo consente a Kertész di avanzare nel vuoto diretto verso la morte, senza reti di protezione. Il consenso letterario infatti, invece di esaltarlo, lo deprime, quasi fosse il segno dell’inautenticità: un semplice prezzo da pagare al mercato. Il trionfo tecnologico lo rende ansioso, alla maniera di un progresso incontrollato che non si può verificare nella pienezza dell’esperienza.

Certe recrudescenze antisemite non lo fanno dormire: tuttavia la potenza di questo diario sta anche nella sua sobria eleganza, per come evita ogni involuzione senile. Chissà cosa direbbe oggi Kertész dell’Ungheria di Viktor Orbán, pronta a rialzare i vecchi muri per sbarrare la strada ai nuovi senza patria. Forse si starà rivoltando nella tomba, ma un libro come questo, così profondamente libertario, dimostra che già da vivo lo scrittore temeva l’emergere dei nazionalismi. Un uomo così, scottato da Hitler e Stalin, avrebbe considerato le nuove bandiere sventolate a Budapest come striduli falsetti di un mondo che in tanti avevano sperato di aver sconfitto per sempre. Invece ogni generazione deve ricominciare da capo.

9 gennaio 2017