Luigi Rovigatti, la comunicazione del Vangelo come amicizia

Parroco della Natività per vent’anni, fino al 1966, poi vescovo, fu tra i primi ad inaugurare a Roma la Messa in italiano nel post-Concilio. Il ricordo di Poletti al funerale

«Due sono gli scopi per cui una parrocchia esiste: rendere bella la Chiesa e fare la carità». Lo ripeteva spesso don Luigi Rovigatti, nel 1937 vice parroco e dal 1947 parroco della Natività per vent’anni, sottolineando la necessità che la Chiesa dovesse essere attrattiva e che per vivere la carità si dovesse uscire dalle sue mura. Ha accompagnato la sua comunità parrocchiale dal duro periodo del post-conflitto a quelli della sperimentazione post-Conciliare, dagli anni duri della ricostruzione fino al boom economico, vedendo cambiare il suo quartiere, da periferia a quartiere di media borghesia.

Una compagnia affettuosa e fedele, la sua, che Giovanni Paolo II, nella sua visita alla parrocchia il 14 dicembre 1980, volle ricordare come determinante per la formazione del tessuto sociale e di fede della zona. Facendo riferimento alla «vasta famiglia dei fedeli» della Natività, papa Wojtyla disse: «Non già una massa anonima, ma una formazione vitale che, anche se di origine relativamente recente, ha potuto fruire fin dall’inizio dello zelo esemplare di Mons. Luigi Rovigatti (a cui elevo ora un memore pensiero) ed ha compiuto in poco più di quarant’anni un lungo e positivo itinerario di fede, operando una felice sintesi tra gli elementi della tradizione ed i provvidenziali fermenti del Concilio».

Don Rovigatti era nato a Monza il 23 aprile 1912, e nel 1930, dopo gli anni del liceo, era entrato nel Pontificio Seminario Romano Maggiore. Ma la fragilità fisica lo costrinse ad un temporaneo ritiro e a continuare la preparazione al sacerdozio in famiglia. Dopo l’ordinazione, avvenuta nel 1935, fu assegnato come viceparroco alla appena sorta parrocchia della Natività, eretta nel 1937 dal cardinale Marchetti Selvaggiani, abile ad utilizzare il Concordato per permettere alla Chiesa la costruzione di nuovi luoghi di culto nei quartieri che accompagnarono l’espansione della Roma fascista. Dal 1938 iniziò a lavorare in Vicariato e a collaborare con don Ettore Cunial nella neonata parrocchia di Santa Lucia, dove vennero nascosti e salvati diversi perseguitati dal regime.

Nel decennale della erezione della Natività ne fu nominato parroco (1947) e vi rimase fino al 1966. Venti anni di servizio che hanno lasciato il segno. Come parroco si distinse nell’introdurre modalità pastorali capaci di anticipare alcune riforme conciliari, soprattutto dal punto di vista liturgico, da quello della partecipazione del laicato all’azione pastorale. Istituì già negli anni Cinquanta i “gruppi del Vangelo”, momenti di riflessione e studio in cui venivano infranti i muri di separazione che tradizionalmente accompagnavano l’esperienza dei laici: nei “gruppi” si trovavano uomini, donne, e giovani di entrambe i sessi, cosa assai innovativa per l’epoca.

Organizzò il “Fraterno Aiuto Cristiano” per il sostegno alla celebrazione comunitaria del battesimo; abolì le tariffe per le celebrazioni. Un suo chirichetto, a cui insegnò a non accettare mance dopo i funerali dai familiari dei defunti, ha raccontato che don Luigi diceva sempre: «Il servizio al Signore si fa gratis». Ed aprì la parrocchia alle prime suggestioni dell’ecumenismo. La sua opera era ben conosciuta a Roma tanto che nel 1960 venne incluso nella commissione per la riforma liturgica, voluta da Papa Roncalli in vista del Concilio. Fu tra i primi ad inaugurare a Roma la Messa in lingua italiana nel post-Concilio e innovò con sensibilità ed equilibrio. Il gesuita Giovanni Caprile, grande testimone e cronista del Concilio, scrisse di lui: «Don Luigi capì e visse la liturgia non come proprietà sua, da manipolare a piacimento, ma come un tesoro affidatogli per il vero bene delle anime. Il suo esempio e le sue intuizioni ci dicono che colpì nel segno, tanto da poter essere proposto a modello».

Il 23 maggio 1966 si separò dalla sua amata parrocchia e fu nominato vescovo ausiliare dell’ottuagenario vescovo di Tarquinia e Civitavecchia Giulio Bianconi. Nel maggio del 1968 divenne ausiliare di Andrea Pangrazio, arcivescovo ad personam della suburbicaria di Porto e Santa Rufina, che, il 28 dello stesso mese, lo nominò anche vicario generale. Dall’agosto 1969 cumulò a questo incarico quello di amministratore apostolico “sede plena” di Tarquinia e Civitavecchia. Il 10 febbraio  1973 venne promosso arcivescovo titolare di Acquaviva e nominato vicegerente della diocesi di Roma, accanto al pro-vicario Ugo Poletti, che di lì a qualche settimana divenne cardinale.

Ma al nuovo incarico poté dedicare solo poche settimane perché aggredito da una grave e dolorosa malattia che lo condusse alla morte il 13 gennaio 1975. Qualche settimana prima della morte per don Luigi, splendida figura del clero romano, era andato in visita al suo capezzale anche Paolo VI. La sera del 23 novembre 1974 Papa Montini era uscito dal Palazzo apostolico in forma privata dopo le 21, accompagnato dal segretario personale don Macchi e da due dignitari della Casa pontificia, per raggiungere il Calvary Hospital e fermarsi al capezzale del malato per confortarlo. Dopo i funerali, celebrati a San Giovanni in Laterano, venne temporaneamente sepolto nella cappella funeraria dei parroci romani nel cimitero del Verano, ma il 13 giugno 1977 tornava, per la sepoltura definitiva, nella sua amata parrocchia della Natività in via Gallia.

Ai suoi funerali Poletti (allora pro-vicario) lo ricordò con parole toccanti e sottolineò come l’amicizia rappresentasse il suo modo di far sentire la vicinanza del Signore, il cuore del suo spirito missionario. Diceva Poletti di don Luigi: «Aveva la capacità e il segreto di fare amicizia, di legare a sé gli animi al di fuori e al di sopra di ogni sentimentalismo. Anzitutto aveva il culto della persona altrui, della dignità dell’interlocutore, che poi si tramutava in un discorso tanto più efficace quanto più franco e schietto, che ispirava fiducia… Cercava prima la buona volontà e poi il cuore di chi gli stava di fronte, donando schiettezza per ottenere sincerità e confidenza. La logica stringente della dottrina, che possedeva profonda, veniva poi. Aveva certo il dono del conversare sapido e sostanzioso, senza misurare il tempo, perché il tempo conta poco a paragone dell’amicizia».

20 marzo 2019