Luigi Di Ruscio, versi di un cristianesimo scarnificato

La raccolta di “Poesie scelte” curata da Massimo Gezzi, con la prefazione di Massimo Raffaeli. Il ruolo del ritmo e degli ambienti emotivi, tra le quinte di un’ordinarietà estrema

Guardo i miei studenti immigrati, Mohamed alle prese col verbo essere, Rashid impegnato a sillabare, Lucinda mentre copia i verbi irregolari, e penso a Luigi Di Ruscio, nato a Fermo, in vicolo Borgia, nel 1930 e morto a Oslo, in Aasengata 4/c, nel 2011. Una vita come cento poesie. Un’opera scritta col corpo. Pare fosse un alunno difficile: i docenti dell’epoca fascista non erano certo attrezzati contro quella che oggi noi chiamiamo la dispersione scolastica. E così lui prese soltanto la quinta elementare. Il che non gli impedì di leggere e studiare per conto proprio: Pavese, Croce, Joyce, Hegel e quant’altro. Nel 1953 esordì con una raccolta di poesie che recava la prestigiosa prefazione di Franco Fortini: “Non possiamo abituarci a morire”.

«Ho scoperto i libri nel mucchio dello stracciaio»: basta questo verso per capire tutto. A ventisette anni Di Ruscio emigrò in Norvegia trovando lavoro come operaio metalmeccanico. Sposato con Mary, padre di quattro figli, coltivò la sua vena poetica e anche narrativa con grande tenacia e coerenza. Per decenni visse e pensò in due lingue: il norvegese di tutti i giorni e l’italiano che in casa nessuno, tranne lui, conosceva: né moglie, né figli. Oggi abbiamo la possibilità di scoprire questo autore di radicale umanità, che veniva veramente dal basso, grazie a un testo prezioso: “Poesie scelte. 1953–2010” (Marcos y Marcos, pp. 305, 20 euro) curato con lucida passione e sintonia intellettuale da Massimo Gezzi, anch’egli poeta marchigiano, il quale ha operato la sua scelta da un’antologia essenziale che lo stesso autore approntò un anno prima di morire.

Nell’importante prefazione Massimo Raffaeli spiega il nesso fondamentale in Di Ruscio fra il pensare e l’esprimere: chi cercasse in questo autore chissà quali illuminazioni liriche sarebbe messo sotto scacco. A contare sono il ritmo e gli ambienti emotivi: «La prima lettura è difficile / ma se riesci a leggerla una volta la leggerai anche per una terza». Lentamente, oppure d’improvviso, emergono le quinte di un’esistenza estrema nella sua dimensione ordinaria: «Non ho fatto altro che saldare fili di ferro di sei / millimetri di diametro», prima alla catena di montaggio, poi nella stanza all’ottavo piano del palazzone non distante dai treni coperti di neve.

Poesie scelte - Luigi di RuscioC’è in quest’opera un cristianesimo a testa in giù, scarnificato, ossuto, intransigente, tutto dalla parte dei poveri, degli sconfitti, degli esclusi: «È la menzogna che tiene ben saldi i cardini del mondo / non certo la verità che è quasi sempre sovversiva». Una poesia prosastica, fatta di frasi prive di risonanze, franche e dirette con una forza propria: «L’urlo può essere bello / ma non ha nulla a che fare con l’arte / poi quando uno alza la voce è difficile capirlo», senza descrizioni paesaggistiche ma coi fondali che spuntano di sbieco: «La luce verso l’orizzonte era di una straziante bellezza»; e ti fanno immaginare ogni cosa. L’esistenza di un migrante italiano in Norvegia, picchiato dalla polizia, il cui figlio frequenta una scuola multietnica. Lo stesso che quando a tre anni gli veniva incontro lo incantava: «Ed è tutto prima del linguaggio / più chiara e precisa è la sensazione / più incerto e balbettante il verso / il compito è impossibile / come descrivere la propria agonia». E adesso restiamo in attesa della biografia che Angelo Ferraguti dedicherà al nostro atavico proletario piceno.

1° luglio 2019