“Luci di guerra” di Ondaatje, fiducia nel tempo che risana

Nelle pagine dello scrittore nato in Sri Lanka ma “adottato” dal Canada, la descrizione di una Londra grigia e fumosa, come se davvero nessuno potesse sperare di trovare ciò che cerca

Michael Ondaatje, nato nel 1943 nello Sri Lanka, ebbe un’infanzia traumatica segnata dal distacco dei genitori che, dopo essersi separati, abbandonarono lui e i suoi fratelli nell’isola natale. Presto i ragazzi raggiunsero la madre a Londra, ancora stravolta dai bombardamenti nazisti. Per Michael fu l’inizio di una nuova vita che lo portò in Canada dove si affermò come uno dei più importanti scrittori della letteratura contemporanea. In molti dei suoi libri, dal memoir Aria di famiglia (1982), sul ritorno a Ceylon, a Nella pelle del leone (1987), ambientato nella comunità degli immigrati a Toronto, dallo Spettro di Anil (2000), un’altra investigazione, seppure per interposta persona, sulle proprie radici cingalesi, a Divisadero (2007), in cui sanguina la ferita dell’orfano, sino a L’ora prima dell’alba (2011), sul viaggio per nave da Colombo alla Gran Bretagna vissuto dall’autore quand’era bambino, si riflettono queste vicende autobiografiche trasfigurate dall’immaginazione narrativa: la seconda guerra mondiale, in particolare, appare sullo sfondo dei nuclei tematici come un fantasma minaccioso che, pur essendo alle spalle dei personaggi, continua a condizionarli.

Era così soprattutto nel Paziente inglese (1992), il romanzo di maggior successo internazionale, ma anche nell’ultima opera, Luci di guerra (Garzanti, traduzione di Alba Bariffi, pp. 256, 20 euro), ambientata in Inghilterra negli anni successivi al conflitto bellico, il cui protagonista, Nathaniel, quattordicenne londinese, è costretto a vivere, insieme alla sorella Rachel, sotto la protezione di un eccentrico tutore, dai ragazzi soprannominato Falena, dopo che i genitori sono partiti per Singapore. Il libro si configura come un lungo racconto retrospettivo nel quale l’orfano, ormai adulto, cerca di scoprire le ragioni che portarono la madre ad assentarsi tanto a lungo. Il lettore, se avrà pazienza, le scoprirà lentamente, superando continui rimandi: la donna, una spia al servizio della Corona britannica, avrebbe voluto proteggere i figli; del padre invece non sapremo più niente, proprio come accadde allo stesso scrittore. Il quale si lascia irretire nella rievocazione della complicata rete di personaggi laterali (pugili, contrabbandieri, giocatori d’azzardo, cantanti liriche, etnologi) presenti nella vita di Nathaniel e Rachel come ospiti di Falena, in realtà molti di loro erano agenti sotto copertura, prima che i due adolescenti trovassero ognuno la propria strada distaccandosi dal misterioso protettore.

Uno dei pregi del romanzo, che rovescia il concetto stesso di “educazione sentimentale” piegandolo alla visione dolorosamente consapevole e tutt’altro che risolta di Ondaatje, è la descrizione di una Londra grigia e fumosa, vittoriosa e triste, fra Dickens e Conrad (quello di L’agente segreto), come se davvero nessuno di noi potesse sperare di trovare ciò che cerca: la verità resterà sempre sepolta negli archivi. Permane, come un vascello scampato al disastro, la fiducia nel tempo che risana. «Da adolescenti siamo sciocchi. Diciamo cose sbagliate, non sappiamo come fare a essere modesti o meno timidi. Tranciamo giudizi facilmente. Ma l’unica speranza che ci è data, anche se lo si vede solo a posteriori, è che cambiamo. Impariamo, ci evolviamo. Ciò che sono adesso è stato formato da tutto ciò che mi è successo allora, non da quello che ho realizzato, ma da come ci sono arrivato».

6 luglio 2020