L’origine di Roma riletta da Serres

La città eterna, «tigrata, zebrata, multicolore», è frutto di un processo. Per questo è sempre stata molteplice, ostile e ospitale, scatola nera che assorbe la luce e la richiude nel suo ventre di pietra

Fra le grandi opere della cultura moderna, alla magnetica frontiera tra mitologia, antropologia, storia e letteratura, Roma. Il libro delle fondazioni di Michel Serres, pubblicato nel 1983, ristampato da Mimesis a cura di Gaspare Polizzi, nella versione di Roberto Berardi uscita vent’anni fa per l’editore torinese Hopefulmonster, rappresenta un passaggio essenziale: se dobbiamo pensare nel Novecento a un testo altrettanto vertiginoso per densità speculativa e febbrile energia stilistica, ci viene in mente soltanto Corpo d’amore (1966) di Norman Brown, che pure potremmo leggere in controluce rispetto al capolavoro del filosofo francese, allievo di René Girard, al quale tuttavia si contrappose.

Il potere non nasce dalla lotta fra due nemici, bensì dal terzo escluso. Apparentemente siamo di fronte a un commento, libero, rigoroso e appassionato, degli Ab Urbe condita di Tito Livio. Ma in realtà, a partire dal classico latino, Serres svolge una riflessione, concettuale e lirica al tempo stesso, sul tema dell’origine. Sia sufficiente la seguente citazione per il lettore che desideri approfondire: «Prima dello scavo delle mura di Roma, c’è lo spazio tra Aventino e Palatino. Prima di questo spazio c’è Alba. Ma Alba non è sulle colline della città. Prima di Romolo e Remo, Ercole e Caco… Enea veniva da lontano, dal mare color del vino, dagli amori infelici dell’Africa, da un litorale dell’Est estremo… La storia antica viene dalla caduta di Troia, come la nostra nuova storia viene dalla fine di Hiroshima. Cerchiamo di non dimenticarlo».

Stiamo dunque parlando di Tiberino, re di Alba, che annega in un’ansa morta del fiume in piena, nel punto in cui, dicono alcuni, sorgerà l’isola nata dal fango mischiato ai beni saccheggiati dal popolo a Tarquinio il Superbo. Torniamo al centro del bosco primordiale dove Numa incontrava Egeria, nella grotta opaca da cui sgorgava una fonte perenne. È sempre lo stesso scenario leggendario: la foresta sacra che vede Marte stuprare Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo, poi allevati da una coppia di lupi: Alfred de Vigny ne ricaverà una delle sue poesie più belle.

Ma allora quando comincia Roma, così inafferrabile, insieme greca, ellenica, troiana, albana, sabina, etrusca, latina? Guardiamo le sorgenti e capiremo che si tratta di una domanda sbagliata. Qui Serres ci impartisce la sua memorabile lezione: «Il luogo della scaturigine è l’estuario di una tramatura sfilacciata verso gli acquitrini o verso dei margini di ghiacciaio». Sicché: «Dove derivano le acque, bisognerà che vi convergano». Scrivere la storia significa violare l’indeterminato, se non proprio nascondere gli eventi. Roma quindi, «tigrata, zebrata, multicolore», risulta frutto di un processo. Per questo è sempre stata molteplice, ostile e ospitale al tempo stesso, non soggetto ma oggetto, scatola nera che assorbe la luce e la richiude nel suo ventre di pietra.