Lo stile di Appelfeld, erba sulle macerie

Nelle pagine del testimone della Shoah, nonostante gli sradicamenti umani e storici dai quali scaturiscono, resta una residua speranza nei confronti degli esseri umani

I romanzi di Aharon Appelfeld (1932-2018), che visse sulla propria pelle la tragedia della Shoah, sono erba sulle macerie perché, nonostante gli sradicamenti umani e storici dai quali scaturiscono, riescono sempre a trasmetterci una residua speranza nei confronti degli esseri umani. Così accade, ad esempio, in Il mio nome è Katerina (Guanda, pp. 235, traduzione di Elena Loewenthal, postfazione di Susanna Nirenstein, 18 euro), la storia di una povera e umile contadina rutena (odierna Ucraina) che, pur essendo gentile, vive in mezzo agli ebrei, da tutti invisi, si affeziona alle loro usanze fino al punto di allevare i bambini di una donna costretta ad abbandonarli, salvo poi doverli restituire ai parenti stretti. La scena in cui essi vengono a riprenderseli è bella e straziante.

I tempi sono quelli del nazismo trionfante. Katerina, provata dalla miseria e dagli stenti, assiste sgomenta ai ripetuti massacri delle comunità che pure l’avevano accolta, insieme al figlio, Beniamin, avuto per caso con un vagabondo. Quando il piccolo viene ucciso da quest’ultimo, la madre si vendica accoltellando l’uomo. Subito arrestata, trascorre quarant’anni in prigione mentre i fuochi della guerra incendiano l’Europa e i pogrom e le deportazioni decimano i giudei in uno sterminio crudele. Quando esce, ormai anziana, assomiglia a una larva umana. Non sapendo più dove andare, torna nei luoghi originari girando smarrita fra boschi e torrenti alla vana ricerca della bambina di allora: «Di quegli anni non resta alcun ricordo apparente, solo io, gli anni racchiusi dentro di me, la mia vecchiaia. La vecchiaia avvicina l’uomo a se stesso e ai morti, senza che se ne renda conto. I morti ai quali abbiamo voluto bene ci avvicinano al Signore».

L’opera, composta in prima persona e pubblicata nel 1989, per certi versi può richiamare alla mente lo stile immortale della Casa di Matrjona di Aleksandr Solzenicyn, in particolare nella pagine iniziali e finali che rievocano l’esistenza dismessa della protagonista, nella sua antica dimora, accudita da un cieco anziano, l’unico a prendersi cura di lei portandole da mangiare e la legna per riscaldarsi. Lo scrittore, che aveva appena dato alle stampe Storia di una vita, ha ancora nella testa la scrittura breve e diaristica di quel capolavoro. Stile diretto, frasi semplici e chiare, uno sguardo franco e appassionato, amaramente consapevole del male umano, eppure mai arreso, sempre curioso e vitale.

Nell’esperienza di Katerina, Appelfeld lascia filtrare la sua memoria autobiografica quando, dopo l’assassinio della madre da parte nazista, girò orfano nelle foreste slave. Lui era fuggito dal lager in Transnistria, dove il padre aveva trovato la morte e non sapeva a chi rivolgersi. Venne aiutato da certe donne come Katerina, testimoni di un dramma dalle dimensioni inaudite, alle quali in questo romanzo rende un implicito e commosso omaggio.

25 luglio 2023