Lo sradicamento di Appelfeld

In “Tutto ciò che ho amato”, il senso di sprofondamento nell’avventura di un essere umano, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Lo smarrimento del piccolo protagonista

Un romanzo come Tutto ciò che ho amato, pubblicato da Aharon Appelfeld nel 1999, quando lui aveva 67 anni, riproposto da Guanda nella traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, ti fa capire l’essenza intima dell’arte. A contare nella sostanza non sono né la trama, né la scrittura in sé stessa, bensì la magia del ritmo narrativo, il timbro di voce interno al testo, quel senso di sprofondamento nell’avventura di un essere umano.

In quest’opera del grande narratore ebreo, nato nel 1932 a Czernowitz, Bucovina, la città di Paul Celan, sopravvissuto alla Shoah ed emigrato in Palestina dopo la guerra, i fatti si potrebbero riassumere in poche righe: è la storia di un bambino di nove anni, Paul Rosenfeld, che abita un po’ con la madre, affascinante maestrina di paese, un po’ con il padre, pittore alcolizzato, perché i due genitori sono divisi, senza andare a scuola, in quanto soffre d’asma e chi gli vuole bene preferisce tenerselo a casa. In quasi trecento pagine non succede quasi nulla, eppure è difficile staccare gli occhi dai capitoli che si susseguono uno dietro l’altro, scoppiettanti e pieni di piccole sorprese in grado di tenerci sempre legati.

Lo scenario è quello della campagna rumena, alla vigilia della seconda guerra mondiale, con crescenti avvisaglie di antisemitismo: veleno che filtra nei villaggi dove la presenza delle numerose comunità yiddish è consolidata nei secoli, prima che il nazismo le distruggesse. Il riferimento di Appelfeld segue passo passo tutte le vicissitudini del bambino, di volta in volta sorpreso e disorientato, curioso e sfiduciato, carico d’energia e debolissimo, pronto a stupirsi di fronte alle meraviglie e alle nequizie del mondo.

Spesso mostra di essere geloso della madre e del padre quando entrambi, per vincere la solitudine, si abbandonano a infatuazioni passeggere verso amanti improvvisati. Nella prima parte s’affeziona ad Halina, la giovane governante rumena che si prende cura di lui; nella seconda segue il padre nella sua passione pittorica che lo conduce fino a Bucarest dove il bravo e generoso amico Victor, pur sventato e fragile, rappresenta una delle poche figure positive del libro.

A restare nella memoria è la vegetazione della campagna circostante, il fiume che scorre lento in mezzo al fogliame, le fattorie coi contadini impegnati a fronteggiare la violenza incipiente: un territorio di frontiera in cui da sempre gli uomini si contrappongono e che negli anni successivi, lo sappiamo, proteggerà la fuga dello stesso Aharon dal lager in Transnistria dove aveva rischiato di morire. Tutto ciò che ho amato è ambientato prima della tragedia bellica, ma l’anticipa nello smarrimento del piccolo protagonista, destinato a restare da solo, proprio come accadrà allo scrittore, sradicato con un’identità linguistica frammentaria e provvisoria alla quale soltanto la letteratura saprà finalmente dare un senso pieno.

23 luglio 2024