L’irruzione dell’adolescenza: «Prima chi essere, poi che fare»

Essere disposti come genitori o educatori ad accettare la fatica di conoscere se stessi e chi si sta diventando è l’unica strada per riempire di senso le risposte che questi ragazzi ogni giorno ci chiedono

Negli ultimi tempi mi capita spesso di leggere in rete tanti articoli sugli adolescenti che ripetono la stessa idea: «Oggi i ragazzi non sono più abituati al no, siamo di fronte a una generazione di intolleranti alla frustrazione di un no, la rinuncia della comunità educante a dire no è alla base dei tanti episodi di insofferenza, bullismo, violenza estrema che leggiamo sui giornali». Spesso l’articolo è scritto dall’attempato opinionista di turno, il tono è apocalittico, il sottotesto più o meno evidente un inevitabile: «torniamo alla sana educazione di un tempo».

Se si continua il giro in rete, è però altrettanto vasta la proliferazione di articoli, spesso di taglio psicologico-pedagogico, nei quali a colpi di decaloghi del buon genitore, di vademecum per una corretta e sana relazione con i figli, di prontuari vari di resistenza contro esplosioni adolescenziali, la chiave di volta sembra essere invece la ricerca del dialogo, dell’accompagnare con pazienza le bordate furibonde degli adolescenti, di cercare strategie sempre nuove per non perdere contatto con i nostri ragazzi.

Semplificando molto (e in modo improprio ma necessario per comodità di ragionamento) mi pare si tratti di due approcci alla questione speculari anche se apparentemente di segno opposto. È chiaro, entrambi i punti di vista portano in sé intuizioni valide e vere. Eppure ogni volta che leggo questi contributi mi sembra manchi un elemento determinante: il focus è sempre centrato sull’adolescente, mentre chi educa (genitore o insegnante che sia) diventa oggetto di discussione unicamente in quanto esecutore materiale di questa o quell’altra strategia, sia essa censoria e normativa o empatica e accogliente. Insomma il punto sembra sempre essere il che fare.

La controprova di quanto ciò possa essere un possibile limite credo vada cercata in quella sensazione di insufficienza che si prova ogni volta che si leggono articoli del genere: «Sì ok, ma poi quando ho a che fare con Marco, con Giorgia, in questo suo momento complicatissimo, per quel concretissimo problema che ora come ora mi pare insormontabile, quanto vorrei che tu fossi qui caro articolista, dell’una o dell’altra scuola, per vedere come funziona la tua ricettina pulita a suon di randellate o a soffi di carezze». Ecco, credo che questa sia una domanda utile, meno semplificatoria e banale di quanto potrebbe apparire, e che ci aiuta a chiarire quale possa essere la possibile parte mancante.

L’esperienza dell’adolescenza si sostanzia radicalmente in un processo di cambiamento, per i nostri figli che iniziano a diventare adulti, ma anche e non secondariamente per noi adulti che partecipiamo direttamente a questo processo. L’irruzione di un’identità che si trasforma, spesso con una forza selvaggia e destabilizzante, mette assolutamente in subbuglio più che le categorie precedenti dell’adolescente (che in fin dei conti si limita a cancellarle definitivamente, trattandosi delle categorie dell’infanzia) quelle dell’adulto che invece possiede principi e forme ben più stratificate e consolidate nel tempo.

Il primo atto educativo dovrebbe essere quindi il banale (ma non scontato) prendere coscienza che pretendere un automatismo trasmissivo delle proprie idee su quella cosa nuovissima e assolutamente altra che è l’adolescente è fare un po’ come il bimbo che si indispettisce perché non riesce ad infilare il giocattolo a forma quadrata nel buco triangolare. C’è un trauma primario nell’adolescenza che è anzitutto quello del genitore che si trova a dover mettere in discussione le proprie strutture. Ma attenzione, ciò non avviene semplicemente perché l’adolescente è per definizione oppositivo, trasgressivo e quindi indisposto ad accettare una guida. Tutt’altro, oggi più che mai gli adolescenti mi paiono, ben più di quanto si racconti, desiderosi dei no di cui si diceva all’inizio ma anche dei sì dell’approccio apparentemente opposto.

Il fatto è che finché quei sì e quei no saranno calati apoditticamente dall’alto, quasi come una forma di difesa contro la novità che l’adolescente presenta, essi saranno sempre insufficienti perché scaturiti in fondo dalla più o meno inconscia difesa in uno status quo precedente. Essere disposti come genitori o educatori a fare chiarezza e accettare la fatica di conoscere se stessi e chi si sta diventando, proprio in quanto prossimi a un adolescente, credo sia invece l’unica strada per riempire di senso le risposte che questi ragazzi ogni giorno, incessantemente, ci chiedono, siano esse fatte di un accogliente e legittimo sì o siano esse fatte di un necessario e fermo no. A tra quindici giorni.

28 febbraio 2018