L’inquietudine, parola chiave per i compiti in classe

Riflessioni a partire da un pensiero di Leopardi su un tema che interpella gli adolescenti. Il silenzio del lavoro in classe su quelle parole così diverso da quello su altre tracce

Nel pc ho una cartella chiamata – alla vecchia – “compiti in classe”, nella quale archivio da vent’anni le tracce delle verifiche scritte di italiano. Avendo in media dalle quattro alle sei classi, con almeno sei verifiche all’anno per ognuna, si tratta ora di un gran numero di prove, alcune delle quali riassegnate ciclicamente. Tra le più utilizzate, nonostante ogni volta mi dica «basta», ce n’è una che propone il confronto con un celebre pensiero leopardiano, questo: «Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana».

Si tratta di un passo molto bello e non sto nemmeno a spiegare il perché fin troppo facilmente interpelli l’adolescenza, l’età delle domande importanti, il tempo per definizione di quell’inquietudine che quelle parole dicono così bene. Tanto facilmente che dalla prima volta che l’ho assegnato, e poi ogni volta, ho avvertito il dubbio di fare un pessimo servizio a Leopardi, rischiando quel leopardismo da baci perugina che a scuola troppo spesso incombe sul quel gigante che è quel poeta.

Sui miei – credo sani – scrupoli, devono avere pesato anche le parole di un altro padre personale (il suo commento alla Commedia resta per me uno dei testi della vita), ovvero quel Natalino Sapegno che nel suo Disegno storico della letteratura italiana affermava: «Le domande in cui si condensa la confusa e indiscriminata velleità riflessiva degli adolescenti, la loro primitiva e sommaria filosofia – che cosa è la vita? A che giova? Quale il fine dell’universo? E perché il dolore? – , quelle domande che il filosofo vero e adulto allontana da sé come assurde e prive di un autentico valore speculativo e tali che non comportano risposta alcuna né possibilità di svolgimento, proprio quelle diventarono l’ossessione di Leopardi, il contenuto esclusivo della sua filosofia».

Ma Sapegno o meno (e qualcuno avrà già anche pensato alle riflessioni di un altro grandissimo, che mise a contrasto proprio questi due passi per riflettere sull’illusorio sforzo di volontà di sottrarsi a certe domande di senso) resta il fatto che poi, almeno una volta all’anno, una mia classe – come quella della scorsa settimana – si ritrova sui banchi a riflettere su queste parole. E perché questo? Potrei dire molto a riguardo, ma credo mi basterebbe l’impossibile di fare sentire il silenzio del lavoro in classe su quelle parole in quelle ore – che è diverso dal silenzio su altre tracce – o ancora più semplicemente ridire le infinite volte che ho letto sui fogli delle verifiche pensieri come questo che ora ho davanti agli occhi, scritto con una grafia sghemba ma luminosissima: «Perché io lo so che quell’inquietudine mi appartiene, che dovrò dargli un nome e un senso, e che su questo si gioca non la mia tranquillità ma qualcosa di più importante, ovvero la mia felicità».

21 dicembre 2022