L’importanza di essere gentili per relazioni di qualità

Alla larga dai falsi miti. L’amabilità è una scelta precisa, presuppone delle capacità di stare in relazione con l’altro e favorisce un certo grado di intimità

Nelle relazioni di aiuto, operatori, psicologi, psicoterapeuti si trovano a contatto con diverse persone che hanno in comune la necessità di essere accolte, ascoltate e accompagnate nel dare senso alle loro richieste e difficoltà. Muoversi, nel rispondere a queste persone, con gentilezza può fare la differenza? Cosa vuol dire essere gentili? Quali sono le componenti che ci fanno definire una persona, un comportamento, gentili?

La gentilezza, nel vocabolario, viene descritta come amabilità, garbo e cortesia nel trattare gli altri; formula di cortesia nel chiedere un favore, un’informazione e anche come atto, espressione e modi gentili (Treccani). Essere gentili ha dunque a che fare con la relazione con l’altro, e con il modo con cui si comunica e si veicolano i messaggi quando siamo in contatto con altre persone.

Nelle relazioni, in particolare le relazioni di aiuto, la gentilezza può essere espressa specificatamente facendo riferimento ai concetti di empatia, valutazione positiva, accettazione e genuinità. Sono tutte parole che richiamano l’importanza della qualità della relazione terapeutica fra consulente e cliente. Sintonizzarsi con l’altro, cercando di comprenderlo e mettersi dal suo punto di vista (consapevoli che non per forza sia il nostro), comunica chiaramente la volontà di avvicinarsi e proporre un vero ascolto (empatia).

Questa sintonia si nutre anche della capacità di vedere l’altro come persona distinta da sé, e proprio per questo si sceglie di rispettarla accettandola in modo incondizionato: questo vuol dire che la persona ha un valore indipendentemente da un comportamento o da un sentimento specifico. Si comunica all’altro che va bene così com’è. Insieme a questo è essenziale che il consulente lasci da parte pregiudizi, preconcetti e aspettative rispetto al cliente, ma anche le proprie preferenze e i propri valori personali. Accanto a questi elementi è necessaria l’autoconsapevolezza del consulente, cioè la sua capacità di ragionare sulla propria esperienza e di essere presente con il cliente potendo essere aperto e spontaneo quando appropriato.

La gentilezza, con cui i consulenti interagiscono con i clienti, è quindi parte integrante del lavoro terapeutico. E nella vita di tutti i giorni che impatto ha la gentilezza? Per rispondere a questa domanda può essere molto utile sfatare i falsi miti legati ai modi e alle persone quando vengono definiti gentili.

Essere gentili è sinonimo di debolezza: spesso si tende a valutare la convinzione e la forza dell’opinione altrui misurandone l’aggressività con cui viene esposta. Allo stesso modo sembrano (ad una prima lettura superficiale) più efficaci le opinioni che svalutano e attaccano altri, invece di portare tesi a supporto della propria idea. Si confonde l’aggressività con l’assertività, ovvero la capacità di esprimere le proprie opinioni e i propri stati d’animo senza offendere o aggredire l’interlocutore. Nell’immediato può sembrare che l’aggressività porti gli altri ad accettare e condividere il nostro punto di vista, ma in realtà si ottiene un’approvazione di facciata che nasconde malumore, rabbia non espressa e insoddisfazione.

Scegliere di essere gentili – altro falso mito – è indice di un atteggiamento egoistico, per cui chi è gentile lo fa solo per ottenere un vantaggio individuale, come consenso e plauso: come accennato precedentemente, la gentilezza presuppone il prendere in considerazione un altro individuo verso cui prestare attenzione. Le motivazioni per cui le persone decidano di essere gentili possono essere molteplici, ma se manteniamo il focus sulla percezione e l’effetto che un comportamento gentile ha sull’altro avremo la nostra risposta. Il destinatario di una gentilezza saprà dirci se si è sentito sollevato o ha ricevuto un vantaggio dal gesto ricevuto, oppure se ha percepito l’altro come poco chiaro o manipolativo.

Essere gentili, secondo un altro falso mito, è una caratteristica innata della personalità, c’è chi lo è e chi no. E invece no, essere gentili è una scelta. La gentilezza presuppone delle capacità di stare in relazione con l’altro che si possono imparare (come fa un buon consulente).

Fino ad ora può sembrare che l’utilizzo della gentilezza sia ad appannaggio esclusivo di chi sceglie di lavorare in ambito terapeutico. Non è così, proprio perché ognuno di noi è inserito in un contesto sociale e familiare fatto di relazioni, la cui qualità incide fortemente sul benessere psicologico di ognuno. Le esperienze che viviamo interagendo con gli altri influiscono sui nostri pensieri, comportamenti e opinioni.

Soffermatevi per qualche istante a pensare all’ultima volta che avete acquistato qualcosa in un negozio: la persona che vi ha servito potrebbe avervi ignorato o non ascoltato con attenzione, così da costringervi a cercare da soli quello di cui avevate bisogno o a rinunciare all’acquisto. Vi sentite innervositi e infastiditi da quel comportamento. Iniziate a pensare al tempo che avete perso, al fatto che dovrete rivolgervi ad un altro negozio (e quindi ad un’altra persona) e che quell’esperienza non vi è per niente piaciuta. La vostra valutazione di questa interazione sarà negativa.

Pensate adesso se quella persona vi avesse chiesto se poteva esservi utile e in che modo; se vi avesse ascoltato attentamente capendo bene di cosa avevate bisogno; se vi avesse sorriso anche quando gli avevate risposto che facevate da soli; se non avesse sbuffato o cercato in tutti i modi di vendere qualcosa anche se non era quello che cercavate; se aveste avuto la chiara percezione che quella persona era lì semplicemente per ascoltarvi e, nel caso, darvi una mano, solo se richiesto: sareste usciti dal negozio pensando, molto probabilmente, quanto fosse stata gentile quella persona. Avreste vissuto e ricordato quell’esperienza come positiva, piacevole e non escludereste di tornare in quel negozio.

Questo esempio per riflettere su come, nel primo caso, non ci sia stato un vero e proprio incontro con l’altro. Nel secondo, invece, seppur per un tempo breve e con una persona estranea, si è creato un certo grado di intimità, reso possibile dalla gentilezza espressa. Come dice lo psicologo canadese Eric Berne, «l’intimità indica la capacità di contatto con gli altri in modo consapevole (conoscenza di sé) e spontaneo (essere e comunicare in modo non giudicante ciò che siamo). Intimità vuol dire capacità di connessione con l’altro partendo dalla connessione profonda con se stessi. Ciò rende possibile lo scambio di affetto e la capacità di amare e lasciarsi amare» (a cura di Guido Palopoli).

21 dicembre 2018