Libano, si dimette il premier Hariri

Dopo 13 giorni di proteste per la decisione, subito revocata, di una tassa sulle chiamate via Whatsapp, l’annuncio in diretta tv: «Serve uno schock»

«Abbiamo raggiunto un punto morto e abbiamo bisogno di uno schock per superare questa crisi». Il primo ministro libanese Saad Hariri ha annunciato con queste parole, in un discorso in diretta tv dalla sua residenza di Beirut, la decisione di rassegnare le dimissioni.

Le dimissioni di Hariri arrivano dopo 13 giorni di proteste, scoppiate a seguito della decisione, subito revocata, di imporre una tassa sulle chiamate via Whatsapp. Le proteste si erano propagate in tutto il Paese, trasformandosi subito nella richiesta di cambiamento che ha investito tutta la classe politica del Libano. A sostegno del popolo, «che ha manifestato la sua unità», anche i capi delle Chiese e delle comunità cristiane presenti nel Paese, che nell’Appello di Bkerké lanciato nei giorni scorsi hanno chiesto di «abbracciare e proteggere la legittima rivolta dei nostri figli», sottolineando l’urgenza «che il potere e il governo diano risposta alle loro richieste nazionali».

«Per 13 giorni – le parole di Hariri – il popolo libanese ha atteso una soluzione politica che arrestasse il deterioramento del clima. In questi giorni, ho provato a trovare un modo per ascoltare la voce del popolo e allo stesso tempo evitare pericoli per la sicurezza e l’economia. Oggi ho raggiunto un punto morto, e credo che a questo punto sia necessario dare una scossa». Pochi minuti prima dell’annuncio della fine anticipata del suo mandato, si erano conclusi alcuni scontri nel centro di Beirut, tra manifestanti che avevano occupato piazza dei Martiri, bloccando poi la principale arteria cittadina (il Ring), e residenti locali accompagnati da supporter di Amal ed Hezbollah, i due partiti sciiti del Paese.

Le dimissioni del premier sono state festeggiate dalla folla. Ora però vacilla la stabilità del Paese. Per il ministro degli Esteri francese Jean Yves Le Drian la crisi in Libano ora è «molto più grave». Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha esortato le forze politiche libanesi a formare «urgentemente» un nuovo governo che possa costruire «un Libano stabile, prospero e sicuro che risponda alle necessità dei suoi cittadini». Anche le Nazioni Unite attraverso il coordinatore speciale per il Libano Jan Kubis hanno caldeggiato una «rapida formazione del nuovo governo», invitando tutte le parti a «evitare la violenza». Il Libano rischia l’imminente collasso economico, come ha ricordato il governatore della Banca centrale Riad Salameh.

Al momento il tasso di cambio ufficiale tra lira libanese e dollaro è schizzato a oltre 1,8 (due settimane fa era a 1,5), le banche sono chiuse dal 18 ottobre, le principali arterie stradali del Paese sono bloccate dai manifestanti o dalle transenne e il ministro della salute Jamil Jabak ha dichiarato che in gran parte delle farmacie e degli ambulatori del Paese iniziano a scarseggiare medicinali essenziali e vaccini, proprio a causa della difficoltà a circolare. Il Paese, ha detto, rischia la «catastrofe sanitaria».

Ora la parola passa al presidente Aoun, il quale ha già fatto sapere di aver accettato le dimissioni ma di volersi prendere del tempo prima di fare comunicazioni ufficiali (domani o dopodomani, secondo fonti vicine alla presidenza), che verosimilmente ufficializzeranno lo status “reggente” del governo in carica, fino a nuove decisioni. La piazza invece, che punta alla formazione di un governo tecnico, elezioni parlamentari anticipate e conseguente elezione di un nuovo presidente, chiede con fermezza un rimpasto integrale del governo formatosi due anni fa, al quale per il momento sia il presidente Aoun che i suoi alleati principali di Hezbollah si oppongono, temendo l’instabilità e i tentativi di marginalizzare nel nuovo governo il partito filo iraniano.

30 ottobre 2019