Lettera aperta degli immigrati del centro di Tor Sapienza

«Viviamo nel panico, ma non siamo venuti per fare male a nessuno, siamo venuti qui per costruire una nuova vita». La paura dello staff della struttura: «Siamo tutti esausti»

«È da tre giorni che viviamo nel panico, bersagliati e sotto attacco: abbiamo ricevuto insulti, minacce, bombe carta. Siamo tornati da scuola e ci siamo sentiti dire “negri di merda”; non capiamo onestamente cosa abbiamo fatto per meritarci tutto ciò. Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come gli italiani; ma ora non possiamo dormire, non viviamo più in pace, abbiamo paura per la nostra vita». È la drammatica testimonianza contenuta nella lettera aperta dei rifugiati del centro di via Giorgio Morandi, a Tor Sapienza, che arriva poco dopo mezzogiorno nella nostra redazione grazie alla coordinatrice del centro Sprar di via Morandi, Alessia Armini.

«La nostra preoccupazione come staff – scrive Alessia – è per gli utenti, ricordiamoci che parliamo di richiedenti asilo e rifugiati politici e di minori in tutela. Purtroppo sia giornali che telegiornali hanno fatto uscire volti non oscurati e questo li mette ancora più in pericolo. Questo è il modo per far sentire la loro voce», aggiunge riferendosi all’invio della lettere aperta.

«Vi posso dire che siamo esausti tutti, questa mattina – racconta – i minori sono tornati autonomamente da dove erano stati spostati con la richiesta di tornare qui. Purtroppo non possono entrare, ora sono al Comune per far ascoltare le loro richieste. Noi siamo transennati, sta arrivando Borghezio con Casapound. Dalla mia parte io vorrei solo fare il mio lavoro e credetemi in questo momento è difficile».

«La tensione è altissima, siamo minacciati – prosegue Alessia -, non possiamo uscire, è pericoloso entrare, salti mortali per far arrivare i pasti, appuntamenti ospedalieri rinviati. Che sia chiaro che gli utenti stanno facendo da capro espiatorio per una guerra che non è la loro, dalla loro sono già scappati. Scusate, ma non ce la faccio veramente più».

Ecco il testo integrale della lettera aperta degli immigrati del centro di via Morandi:

Tutti parlano di noi in questi giorni, siamo sotto i riflettori: televisioni, telegiornali, stampa. Ma nessuno veramente ci conosce.

Noi siamo un gruppo di rifugiati, 35 persone provenienti da diversi Paesi: Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan, Mauritania, ecc…Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua storia; ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti, ecc..ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite. Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a volte con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori, i nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Non siamo venuti per fare male a nessuno.

In questi giorni abbiamo sentito dire molte cose su di noi: che rubiamo, che stupriamo le donne, che siamo incivili, che alimentiamo il degrado del quartiere dove viviamo. Queste parole ci fanno male, non siamo venuti in Italia per creare problemi, né tantomeno per scontrarci con gli italiani. A questi ultimi siamo veramente grati, tutti noi ricordiamo e mai ci scorderemo quando siamo stati soccorsi in mare dalle autorità italiane, quando abbiamo rischiato la nostra stessa vita in cerca di un posto sicuro e libero. Siamo qui per costruire una nuova vita, insieme agli italiani, immaginare con loro quali sono le possibilità per affrontare i problemi della città uniti insieme e non divisi.

È da tre giorni che viviamo nel panico, bersagliati e sotto attacco: abbiamo ricevuto insulti, minacce, bombe carta. Siamo tornati da scuola e ci siamo sentiti dire “negri di merda”; non capiamo onestamente cosa abbiamo fatto per meritarci tutto ciò. Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come gli italiani; ma ora non possiamo dormire, non viviamo più in pace, abbiamo paura per la nostra vita. Non possiamo tornare nei nostri Paesi, dove rischiamo la vita, e così non siamo messi in grado nemmeno di pensare al nostro futuro.

Vogliamo dire no alla strada senza uscita a cui porta il razzismo, vogliamo parlare con la gente, confrontarci. Sappiamo bene, perché lo abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle nei nostri Paesi, che la violenza genera solo altra violenza. Vogliamo anche sapere chi è che ha la responsabilità di difenderci? Il Comune di Roma, le autorità italiane, cosa stanno facendo? Speriamo che la polizia arresti e identifichi chi ci tira le bombe. Se qualcuno di noi dovesse morire, chi sarebbe il responsabile?

Non vogliamo continuare con la divisione tra italiani e stranieri. Pensiamo che gli atti violenti di questi giorni siano un attacco non a noi, ma alla comunità intera. Se il centro dove viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un danno solo per noi, ma per l’intero senso di civiltà dell’Italia, per i diritti di tutti di poter vivere in sicurezza ed in libertà. Il quartiere è di tutti e vogliamo vivere realmente in pace con gli abitanti. Per questo motivo non vorremmo andarcene e restare tutti uniti perché da quando viviamo qui ci sentiamo come una grande famiglia che nessuno di noi vuole più perdere, dopo aver perso già tutto quello che avevamo.

14 novembre 2014