L’Esquilino in festa per i 130 anni della parrocchia di Sant’Eusebio

L’incontro multiculturale aperto dal parroco don Bonicalzi: «Piazza Vittorio, laboratorio che produce riflessione». Le voci delle diverse comunità

Nel contesto dei festeggiamenti per il 130° anniversario della fondazione, la parrocchia di Sant’Eusebio, a piazza Vittorio Emanuele II, sta organizzando in questi mesi una serie di iniziative per celebrare la propria testimonianza storica e la presenza attiva nel territorio. In particolare, ieri pomeriggio, 18 ottobre, nella chiesa del quartiere Esquilino ha avuto luogo un incontro di carattere multiculturale, «nato dalla curiosità e dal desiderio di confrontarci con altre culture, esperienze e tradizioni che interessano la nostra realtà territoriale», ha spiegato aprendo i lavori il parroco don Gianalessandro Bonicalzi, che ha pure parlato di piazza Vittorio, polo commerciale della città, come di «un laboratorio che produce riflessione», non solo profitto economico. Perché «non basta trovare soluzioni per una convivenza serena – ha osservato il sacerdote – ma occorre elaborare un linguaggio comune, coinvolgendo le realtà familiari e le istituzioni scolastiche in questo progetto».

Anche Annibale Bertola e Vittorio Maggi, membri dell’equipe pastorale e promotori dell’iniziativa, hanno sottolineato «il valore di questo incontro, un viaggio tra le culture», e «l’accentuata multiculturalità e multietnicità della nostra zona». Per questo, è stato dato spazio a 4 voci diverse: dopo un’introduzione affidata alla parrocchiana Eleonora Centioli, nata nel 1927 e «memoria storica della parrocchia», hanno portato la loro testimonianza un rappresentante della comunità cinese e di quelle bengalese e indiana. Lyad Ly ha raccontato di essere venuto a vivere in Italia alla fine degli anni ’90, perché «la mia famiglia, una delle prime, si è trasferita qui al tempo del rigido e preoccupante comunismo in Cina». Il giovane imprenditore ha spiegato come la zona dell’Esquilino «sia stata scelta fin dall’inizio come zona privilegiata dai commercianti e dai ristoratori cinesi per via della sua vicinanza alle reti di trasporto, sia ferroviario, per la prossimità con la stazione Termini, sia tranviario». Di seguito, l’osservazione su come «oggi, nel quartiere non ci siano solo negozi cinesi, che possono sfruttare una manodopera a basso costo ed essere quindi concorrenziali, ma anche attività diverse quali bar, caffetterie e pasticcerie». Concludendo il suo intervento, Lyad Ly ha affermato di «essere stato accolto positivamente in Italia, riscontrando soprattutto a Roma un’accoglienza espansiva» e di essere intenzionato, «anche ora, in questa situazione di pandemia, che ha indotto molti cinesi, per sicurezza, a tornare in patria, a rimanere in Italia», pur avendo il progetto, una volta terminata l’attività lavorativa e raggiunta la pensione, «di rientrare nel mio Paese».

Vive in Italia dal 1995, quando aveva 11 anni, anche Air Hassain, originario del Bangladesh. Negli anni precedenti alla venuta nel nostro Paese «ho vissuto a New York, Parigi e Monaco, per arrivare poi qui, una realtà davvero umana, tollerante e accogliente – ha raccontato -, dove ho compiuto i miei studi accademici e svolto attività di volontariato legate soprattutto alla Caritas». Quindi, il giovane originario dell’Asia meridionale, che abita oggi in zona San Giovanni, ha costituito «una organizzazione umanitaria per la quale lavorano 30 persone». Infine, la testimonianza di Mansit Singh, rappresentante della comunità indiana, in Italia dal 1992. Dopo le iniziali difficoltà di integrazione legate «alla scarsa conoscenza della lingua – ha ricordato -, l’inserimento è stato positivo ma graduale: dapprima ho lavorato come muratore, continuando però a cercare la mia strada e finalmente sono poi riuscito ad aprire la mia pasticceria». Oggi Mansit Singh, che riconosce «nell’elemento alimentare uno strumento di incontro e di conoscenza tra culture diverse», si sente «ben integrato nella città: i miei 3 bambini frequentano la scuola, che si è rivelata uno strumento indispensabile per l’integrazione».

Ne è convinta anche Antonella Attico, rappresentante della Comunità di Sant’Egidio e insegnante di scuola dell’infanzia all’Istituto “Daniel Manin”, che sorge a pochi metri da piazza Vittorio Emanuele. «Fin dagli anni ’90 la mia esperienza di docenza è stata densa e caratterizzata dagli obiettivi di integrazione e accoglienza dei bambini che per oltre il 70% sono di origine straniera ma sono italiani a tutti gli effetti».

19 ottobre 2020