Le suore di Roma, in dialogo con la città

Nell’assemblea Usmi che ha aperto l’anno pastorale, la presentazione di un progetto che “racconterà” ai romani la ricchiezza della vita consacrata

Nell’assemblea Usmi che ha aperto l’anno pastorale, la presentazione di un progetto che “racconterà” ai romani la ricchiezza della vita consacrata

Con la tradizionale assemblea – questa volta tenutasi all’auditorium Seraphicum della Pontificia Facoltà Teologica di San Bonaventura di Roma – l’Usmi (Unione superiore maggiori d’Italia) diocesana ha inaugurato sabato 3 ottobre il nuovo anno pastorale, alla presenza del vescovo Paolo Lojudice. Ad aprire i lavori, la delegata diocesana suor Gabriella Guarnieri, delle Maestre Pie Venerini, che ha sottolineato una novità rispetto al programma dello scorso anno, con il quale si era privilegiata la preghiera: «Quest’anno daremo valore alla nostra missione, creando occasioni di conoscenza, ascolto e dialogo». Per far ciò, insieme all’Ufficio diocesano per la vita consacrata diretto da padre Agostino Montan – artefice, lo scorso 16 maggio, anche dell’incontro che il Papa ha avuto nell’Aula Paolo VI con i religiosi e le religiose della diocesi di Roma -, è stato ideato il progetto “Carismi in città: volti della misericordia di Dio”. Un percorso a più tappe, quest’ultimo, che nel dar seguito all’invito di Francesco ad andare “oltre le grate”, coinvolgerà a partire dalle prossime settimane le diverse congregazioni e racconterà ai romani – con modalità di conoscenza reciproca – la ricchezza della vita consacrata e il suo impegno a favore delle persone più fragili che abitano la città.

Aperta quest’anno a tutte le suore delle diverse comunità di Roma e non solo alle superiore, l’assemblea è stata guidata a un momento formativo da suor Bruna Zaltron, Orsolina del Sacro Cuore di Maria, che ha proposto una riflessione «dal taglio volutamente femminile», come ha spiegato lei stessa annunciando il titolo dell’intervento: “Lasciarsi generare per il mondo”. «Partendo dai tre più importanti eventi del momento, ovvero il Sinodo per la famiglia, il V Convegno ecclesiale nazionale di novembre e il Giubileo della Misericordia, in essi ho trovato un denominatore comune: la vita da accogliere e da ri-donare». Un “do ut des” valido per una sposa e madre così come per una suora: «La vita consacrata è chiamata a essere feconda – spiega Zaltron -. Siamo state generate e siamo generanti per il mondo perché la misericordia, nella sua accezione femminile, vuol dire “viscere” e quindi “grembo materno”». La generatività, intesa allora come rapporto privilegiato con la vita, «non è soltanto creare corpi, cosa che evidentemente una suora non può fare, ma è anche creare umanità, di cui possiamo e dobbiamo essere custodi accogliendola come in un grembo». Una generatività «declinata in quattro verbi, ovvero desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e lasciare andare», così come ha insegnato il Papa in un suo intervento dello scorso febbraio a conclusione dei lavori dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della cultura.

Quanto al primo verbo, “desiderare”, la suora mette in guardia dal rischio di confonderlo con il bisogno. «Entrambi partono da una mancanza ma mentre il bisogno, una volta soddisfatto, si ripete, il desiderio è aperto. È nostalgia di una pienezza di cui abbiamo avuto notizia». Chiara, qui, «la connessione tra la profezia che noi consacrate siamo chiamate ad annunciare e il concetto di desiderio». Il secondo verbo, “mettere al mondo”, è da intendere come «lasciarsi fecondare dalla vita per far passare la vita che ci precede e che non è nostra». La “cura”, protagonista del terzo verbo, è invece un’insieme di azioni «che riscaldano il cuore e ha a che fare con la tenerezza, come qualità umana e umanizzante, là dove per “umano” si intende il luogo in cui il divino si manifesta». Qui suor Bruna Zaltron, dando ragione a Bergoglio che ha puntato più volte il dito contro una vita monacale aliena dai problemi della società, ammette come purtroppo il mondo consacrato abbia «rischiato la frammentazione, tenendo separati la cura dell’umano da quella del divino». Ultimo ma non meno importante è il lasciare andare, «proprio come fa una madre», ovvero accettare che gli uomini sbaglino pure ma che siano certi che qui qualcuno li accoglierà sempre.

5 ottobre 2015