Le nostre città, un giardino in attesa
Questo inedito dolore deve trasformarsi in una Quaresima di fede. Dobbiamo credere alla vita che torna, al seme che dorme e si trasforma sotto la neve
Dalle finestre filtra il bagliore dell’ultimo marzo, ormai profumato d’aprile. La primavera non sente ragioni e risveglia la terra, la veste di verde, di rosa, d’azzurro. La fascia di luce, la prepara, bianca e dorata come una sposa! Ed essa non esce leggera soltanto per i prati ma irrompe libera nella nostra città, schizza sulle fontane, gioca sui campetti di periferia, si specchia sugli spavaldi monumenti del centro. Roma vuota e pulita è più bella che mai! Come ridestata da una notte di riposo, ricreata e già pronta ad accogliere, a farsi re-invadere dai romani, dai turisti, da tutti i pellegrini cristiani che, appunto, qui sono nati alla fede.
La sentiamo guardarci, però, come fosse col fiato sospeso, come una sposa delusa che attende l’amato perduto nel vuoto. Il vuoto di gente, dei negozi, dei giardini dei nonni e dei bambini, della piazza San Pietro. Del “lieto romore” delle vie chiuse al traffico, dei ristoranti, del “lavoro usato”, delle chiassose passeggiate vespertine. La fata della vita sembra smarrita, in questi giorni di quarantena. Le borgate sono avvolte da un distopico silenzio, solcate da solitari passanti coi visi chiusi nelle mascherine. Un’atmosfera da far stringere il cuore. «Quando si chiuderanno i battenti sulla strada, si abbasserà il rumore della mola, cesseranno di lavorare le donne che macinano ». Il cupo presagio di Qoèlet sembra apparire nelle immagini che scorrono in tv, non solo dalla nostra ma da tante altre città del mondo. Ecco, allora, un primo guadagno da questo smarrimento: la nostalgia della vita normale. Quello che fino a qualche settimana fa era un fastidio, adesso è un desiderio; quello che ci pesava, adesso ci manca. Paradossalmente ci accorgiamo solo ora di quanto siano essenziali, alla nostra esistenza, l’aria, il sole e la bella stagione e, allo stesso tempo, la vita sociale. Di come la natura sia l’habitat ancora primario di tutti gli umani. E il corpo abbia bisogno di muoversi, di investire energie,
di ritemprarsi e pure di stancarsi.
Dalle tante insofferenze, dal nervosismo che cresce, si rende evidente il fatto che non si possa stare tutto il giorno sul divano. E ancor meno si possa restare isolati, ma che abbiamo bisogno d’esser toccati, curati, abbracciati. Lo disse, in principio, il Creatore: «Non è buono che l’essere umano sia solo». Quanta e quale verità! La vediamo tragicamente rivelarsi nell’esperienza comune e, specialmente, di chi in questi giorni muore negli ospedali senza la carezza dei propri cari o, peggio ancora, da solo a casa sua. Ci accorgiamo di quanto preziosa sia pure la nostra civiltà, tutto ciò che abbiamo saputo costruire per il bene della comunità. Di tante cose che spesso coprivamo di disprezzo, oggi riscopriamo l’importanza e la ricchezza. Delle strutture sanitarie, delle filiere lavorative, delle istituzioni politiche, delle catene di volontaria solidarietà. Scopriamo preziosa la medicina ma anche la tecnologia, i mezzi di comunicazione, la potenza delle piattaforme virtuali. Conoscenze senza le quali saremmo stati molto più sguarniti dinanzi al nemico invisibile.
Questo inedito dolore deve trasformarsi in una Quaresima di fede. Dobbiamo credere alla vita che torna, al seme che dorme e si trasforma sotto la neve. Dobbiamo avere pazienza e speranza. Solerzia, responsabilità, generosità. Domani nascerà una piantina. Dobbiamo pregare e vegliare sul passaggio che avviene. Perché, come ha scritto uno storico israeliano, Yubal Harari, «la tempesta passerà, la razza umana sopravviverà, molti di noi saranno ancora vivi, ma noi abiteremo un mondo diverso». E sarà come quel giardino che «in principio » Dio pose nella steppa dell’Eden e colmò di ogni meraviglia. Poi vi fece abitare Adam, perché provvedesse «a coltivarlo e custodirlo». Sì, tutte le nostre città sono come un giardino che aspetta.
30 marzo 2020