Le “Bugie” di Coetzee e «la verità vera» di Elizabeth Costello

Un’unica storia, scandita in vari frammenti autonomi, che contiene un pronunciamento ben dissimulato ma resistente in favore della praticabilità della vita

Senza speranza: così saremmo tentati di definire i sette racconti di John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la Letteratura nel 2003, compresi in Bugie (Einaudi, traduzioni di Maria Baiocchi e Paola Splendore, pp. 93, 15 euro). Ma sbaglieremmo. Perché le storie che vi sono narrate, in realtà una sola scandita in vari frammenti autonomi rappresentati da Elisabeth Costello che da tempo lo scrittore sudafricano ha deciso di eleggere, alla maniera del Flaubert di «Madame Bovary c’est moi!», quale proprio alter-ego, contengono un pronunciamento, peraltro assai ben dissimulato ma resistente, in favore della praticabilità della vita, comunque degna di essere percorsa nella sua interezza, alla maniera del classico boccale da consumarsi sino alla feccia. E, se volessimo seguire tale interpretazione, non sarebbe affatto escluso che proprio laggiù in fondo, nell’ultimo strato melmoso, dei vasi vinari, sì, ma uscendo dalla metafora, anche dell’esistenza umana colta nella sua fase senile meno edificante e più bruta, risieda addirittura quella che l’anziana protagonista a un certo punto definisce «la verità vera».

Bugie, libro di John Maxwell CoetzeeStiamo parlando di un’intellettuale ormai avanti negli anni, incapace di riconoscere nei figli, impegnati a spingerla oltre la soglia dell’ospizio, le tracce che la madre lascia sempre sulle proprie creature. Una donna caparbia, orgogliosa e cocciuta, a volte irritante, eppure a suo modo adorabile: quando decide di bussare alla porta di una villetta di periferia con l’intenzione di parlare ai proprietari per convincerli a presentarla al loro cane rabbioso ed evitare che questi continui a ringhiarle contro come fa ogni mattina nel momento in cui lei passa da lì in bicicletta, noi vorremmo fermarla, dirle “non lo fare”, ma sarebbe inutile. La signora non teme nemmeno il giudizio spesso impietoso dei propri cari i quali, ad esempio, le fanno capire, con un “certain regard”, che alla sua età non avrebbe dovuto cedere alla vanità di tingersi i capelli.

Elisabeth vuole fare di testa sua: si tiene una dozzina di gatti dentro casa, in una sperduta località spagnola, arrivando ad ospitare persino Pablo, barbone mezzo erotomane. Il figlio, che si chiama John, come Coetzee, la incalza formulando piccole richieste pragmatiche, di semplice buon senso. Lei risponde con una consapevolezza terrificante. Fa impressione sentirla parlare di Nostalgie de la boue. «La domanda che mi faccio è se nostalgie in questo caso appartiene alla mente o al cervello. La mia risposta è al cervello. Il cervello la cui origine non è nel regno eterno delle forme ma nella terra, nel fango, nel limo originario a cui anela tornare. Un desiderio materiale che viene dalle cellule. Una pulsione di morte più profonda del pensiero».

I lettori di Coetzee sanno che Elisabeth Costello è una convinta animalista, quindi non si stupiscono del suo progetto di costruzione di un mattatoio di vetro al centro della città, in modo che tutti possano assistere alla tragica macellazione. Ma dietro questa apparente idea fissa c’è dell’altro. John stenta a seguirla. Lei gli racconta un programma visto in televisione: nel nastro trasportatore di un’incubatrice industriale i pulcini femmina sono avviati a deporre le uova; i maschi invece vengono ridotti in poltiglia. Elisabeth sentenzia: «È per loro che scrivo». Forse solo così il figlio comprende cosa vuol dire sua madre. Quei pulcini siamo noi.

14 ottobre