«Lazzaro felice», dalla parte degli ultimi nel segno di Olmi

A Cannes conquista il premio per la migliore sceneggiatura. Alice Rohrwacher ha instaurato con la Croisette un rapporto che le ha permesso di spiegare le proprie passioni attraverso i temi dell’attualità italiana

Nata a Fiesole nel 1981, Alice Rohrwacher ha esordito nel 2011 con Corpo celeste, presentato al Festival di Cannes nello stesso anno. Allo stesso Festival torna nel 2014 con Le Meraviglie, che vince il Grand Prix Speciale della Giuria. All’importante manifestazione in terra di Francia è presente anche in questo 2018, nella selezione ufficiale del Concorso con Lazzaro felice, che ha ricevuto alla fine il Premio per la migliore sceneggiatura. Con tre film finora realizzati, la regista toscana ha dunque instaurato con la Croisette un rapporto del tutto speciale, che le ha permesso di spiegare e raccontare le proprie passioni, i desideri, i modi per affrontare e proporre i temi incalzanti dell’attualità italiana.

Lazzaro felice esplora però una direzione
diversa e per qualche modo innovativa. La storia prende il via in una grande piantagione di tabacco, di proprietà della marchesa Alfonsina de Luna, dove 54 contadini lavorano notte e giorno secondo un calendario immutabile bloccato su compiti e ritmi. Tra questi contadini (anziani, giovani, adolescenti, bambini) si muove anche Lazzaro, un ventenne che non conosce i genitori eppure lavora con gioia e il sorriso sulle labbra. Capita che Lazzaro faccia amicizia con Tancredi, figlio della marchesa, un coetaneo spinto dalla noia a sognare un futuro lontano da lì. Il ragazzo lo esorta a far credere di essere stato rapito e a preparare un congruo riscatto. La cosa non va a buon fine, la scusa non funziona, arrivano i carabinieri, l’esistenza della fattoria, detta Inviolata, viene scoperta e subito smantellata.

Molti anni dopo, lo stesso gruppo di contadini si ritrova sbandato a girare per Milano, abbandonati e quindi soli, bisognosi di tutto e privi di sostegno. Lazzaro rivede Tancredi, ormai adulto, sembra poter familiarizzare con lui e ottiene un invito a pranzo che però l’uomo non può onorare per mancanza di mezzi: la banca gli ha portato via tutto. Allora Lazzaro si fa coraggio e va in banca a esigere il maltolto. Viene malmenato dai clienti e soccombe. La parabola di Lazzaro, che muore e risorge ed è sempre pronto al sacrificio per gli altri, ha un’indubbia valenza di forte carica religiosa.

Lazzaro, che non ha una precisa identità, assume su di sé tutto il male che può essere ereditato, tutta la cattiveria che l’uomo infligge ad altri esseri umani, e lo porta con se fino a destinarlo alla condivisione universale. Si tratta di un atteggiamento che porta la regista sulle orme del grande cinema umanistico degli anni ’50 e ’60. Torna a mente il Rossellini dei film del secondo dopoguerra, gli straziati apologhi di Stromboli, i freddi teoremi di Viaggio in Italia.

Ma forse è ad Ermanno Olmi, anche per età e generazione, che il cinema della Rohrwacher si richiama. In quella dolente, ruvida sequenza nella chiesa con il rifiuto delle suore ad accogliere i poveri senza una identità. Citazione, o forse omaggio, e non banale ma palpitante e attuale, al Villaggio di cartone di olmiana memoria. Lazzaro felice è un film che sprigiona e trasmette ottimismo, partendo dal buio, dalla privazione, dalla sottrazione. Sta con gli ultimi, e non per convenienza ma perché lo chiedono la pietà, la ragione, la giustizia. Si dice che il cinema italiano sia in crisi. E magari a questo film non arrideranno incassi stellari. Ma chi se ne importa del box office, c’è una classifica non scritta ben più importante, quella della civiltà e della comunione.

28 maggio 2018