L’autonarrazione dei ragazzi nella rete, un peso e un rischio

La vicenda di un ragazzo che affida al web la propria immagine, come tanti adolescenti: la novità di vite che si consegnano alla condizione estesa e fissante dei social

Qualche anno fa ho avuto in classe un ragazzo in prima che giocava molto bene a calcio, per giunta con un rendimento scolastico buono. Come spesso capita a quell’età, il successo sportivo era stato pari alla considerazione ricevuta dai compagni. Durante il secondo anno arrivò addirittura una importante convocazione per la rappresentativa interregionale che lo fece finire sulla stampa locale, una specie di piccolo apogeo personale insomma, che però avrebbe avuto un seguito non previsto nell’anno successivo.

A partire dal terzo anno il ragazzo iniziò ad andare in crisi da punto di vista scolastico, in modo inaspettato. Nei colloqui che richiesi alla famiglia a un certo punto il padre mi mise al corrente di quanto stava vivendo il figlio dal punto di vista sportivo. Questo ragazzo era molto dotato tecnicamente, ma non altrettanto dal punto di vista della prestanza, il passaggio di categoria dovuto all’età l’aveva messo così a confronto con ragazzi più potenti fisicamente e questo l’aveva portato a patire nelle sue prestazioni tanto da passare nel giro di un anno da leader della squadra giovanissimi a riserva della squadra allievi.

Verso la fine dell’anno scolastico, quando il quadro iniziava a essere preoccupante, decisi di parlare a quattr’occhi con il ragazzo e fu in quell’occasione che aprii gli occhi. Al mio incalzarlo e sollecitarlo alla reazione dal punto di vista scolastico ma anche nel dare il giusto peso allo sport lui mi spiazzò dicendomi che era consapevole di tutto ma che il vero problema non era tanto la panchina quanto «la vergogna che provo verso gli altri». Nei giorni successivi provai a mettere insieme i pezzi di quanto ascoltato ma fu lo scorrere il profilo Instagram di questo ragazzo che mi diede la conferma di quanto avevo già intuito.

I vecchi post di questo ragazzo erano stati, nei due anni del proprio successo sportivo, una vera e propria monumentalizzazione della propria immagine a suon di like. Innumerevoli post di azioni palla al piede, celebrati da commenti di coetanei all’insegna del «sei il più forte», «diventerai un campione». Poi, risalendo verso i tempi recenti, gradualmente il vuoto, i post che diventavano sempre più radi e ogni tanto la malinconica riproposizione di qualche immagine del passato postata in giorni in cui la realtà era invece fatta di senso di fallimento vissuto in panchina. Il ragazzo insomma era rimasto intrappolato in ciò che aveva fissato di fronte all’enorme platea social dei propri coetanei, tanto da non potere tollerare una via d’uscita all’insegna di un altro io.

Perché ho voluto raccontare questa storia? Per tanti motivi. Potrei rimanere genericamente sul dato comunque essenziale di come la nuova realtà digitale abbia centuplicato per i ragazzi e le ragazze il peso (e quindi il rischio) della cristallizzazione della propria autonarrazione continua, a fronte di uno stato mutevole come quello adolescenziale. Ma a volere essere onesti fino in fondo, racconto questa storia perché, anche io come tanti, ancora penso alla straziante vicenda della giovane olandese Noa Pothoven. Al di là delle inevitabili polemiche io credo che dovremmo interrogarci su quanto, da certi piccoli dolori come quello del mio ragazzo, fino a quello imponderabile e ingiudicabile di una ragazza che rinuncia alla vita difronte a migliaia di persone, sia oggi decisiva la novità di vite che consegnano i loro processi alla condizione estesa e fissante propria della rete.

12 giugno 2019