“L’amore deluso” di Tadeusz Borowski

Scrittore decisivo della letteratura concentrazionaria, si salvò da Auschwitz recando con sé una tragica consapevolezza del male umano. La raccolta antologica curata da Bernardini

Tadeusz Borowski, nato nel 1922 a Žytomyr, in Ucraina, da una famiglia polacca e morto suicida a Varsavia nel 1951, è uno scrittore decisivo della letteratura concentrazionaria, come dimostra la raccolta antologica dei suoi scritti più significativi, curata da Luca Bernardini: Da noi ad Auschwitz (Mondadori, pp. 516, 16 euro). Borowski, non essendo ebreo, nel campo di concentramento era un “prominente”: come affermò lui stesso in Espressioni in uso ad Auschwitz, un glossario che da solo varrebbe l’acquisto del libro, questo significava «ospite di riguardo, prigioniero in posizione privilegiata, con ottime entrature». Tale condizione suscitava disapprovazione, per non dire disprezzo, nella maggioranza dei deportati, costretti a sopportare pesi ben più dolorosi. Se eri ariano e sapevi parlare tedesco, stando accorto con un po’ di fortuna e molto pelo sullo stomaco potevi sopravvivere.

Così accadde allo scrittore che ad Auschwitz visse nell’occhio del ciclone. Prima di esservi internato, era stato il classico giovane letterato (nei racconti iniziali, amari e nostalgici, rievoca gli esami di maturità sostenuti a Varsavia durante l’occupazione nazista, quando gli insegnanti facevano lezione a casa), cioè uno destinato, come spiegò Jean Améry, a soccombere subito, non possedendo, in quanto uomo di pensiero, gli artigli necessari a resistere. Invece Borowski si salvò, seppure a stento, recando con sé una tragica consapevolezza del male umano. L’enormità di ciò che aveva visto lo spinse a non accontentarsi di condannare solo il regime nazista. Come se la “zona grigia” individuata da Primo Levi, avesse avvelenato gli esseri umani, tutti, nessuno escluso. Quando, in Gente che andava, la capo Block, «una ragazzona alta dai capelli fulvi» lo interpella sulla necessità della punizione, a guerra finita, nei confornti dei carnefici, lo scrittore le risponde così: «Credo che alla gente che è vittima di ingiustizie non basti la giustizia in sé. Perché vuole che anche i colpevoli soffrano ingiustamente. E pensa sia giusto».

Stiamo forse parlando di un amorale? Assolutamente no. Nella sua opera magmatica, quasi un progetto di scrittura prima ancora che l’esito completo, ci sono alcuni scorci di violenza inaudita, ma anche la ricerca di una continua distanza sarcastica, un’incredulità trasformata in sprezzatura. Il rigetto di ogni visione monoculare provocò nel giovane intellettuale un trauma da cui egli non si riprese più, soprattutto quando nella Polonia conquistata dai russi provò sulla sua pelle l’ennesima sconfitta della libertà, di cui per mano sovietica avevano già sofferto i suoi genitori, entrambi esiliati in Siberia dal potere staliniano. Queste vicende ci possono aiutare a comprendere «l’amore deluso per l’uomo e per il mondo» che Czesław Miłosz, opportunamente citato da Luca Bernardini, pensò di riconoscere quale tratto distintivo di Tadeusz Borowski.

30 maggio 2023