L’ambivalenza violenta nei corridoi delle scuole

Riflessioni a partire da una poesia di Saba, tra i volti luminosi dei 18 anni e le parole chiare della primavera e gli sguardi spenti che si incrociano silenziosamente, dentro e fuori dalle aule

C’è una poesia molto bella di Umberto Saba, una di quelle che normalmente si leggono a scuola, parole che dicono di sua figlia Linuccia: Ritratto della mia bambina. È un testo noto, ma è anche un pensiero luminoso, una confidenza delicata, uno scostamento minimo ma netto nell’opaco di questo stesso momento in cui io scrivo e tu leggi, un varco dal quale passa luce limpida e non dice una parola che non sia d’amore, che vola alto, che porta in su: «La mia bambina con la palla in mano, / con gli occhi grandi color del cielo / e dell’estiva vesticciola: “Babbo / – mi disse – voglio uscire oggi con te”. / Ed io pensavo: Di tante parvenze / che s’ammirano al mondo, io ben so a quali / posso la mia bambina assomigliare. / Certo alla schiuma, alla marina schiuma / che sull’onde biancheggia, a quella scia / ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde; / anche alle nubi, insensibili nubi / che si fanno e disfanno in chiaro cielo; / e ad altre cose leggere e vaganti».

Quella stessa potente leggerezza l’ho sentita oggi sul corridoio, quando è suonata la campanella e avevamo appena chiuso il libro sulla poesia, sulle poesie – ne avevamo letto anche altre -, versi che ci avevano sollevato in altra direzione da quella che anche il nostro tempo disonesto indicherebbe, come quelli in cui sempre Saba si fa capace di perdono per la donna che per un periodo l’aveva abbandonato («So che per quanto alla mia vita hai tolto, / e per te stessa dovrei odiarti. / Ma poi altro che un bacio non so darti / quando t’ascolto»). I volti luminosi della pelle dei diciotto anni, le parole chiare della primavera, quasi un senso di colpa per certi momenti di felicità raggiunte che parrebbero un anacronismo per un adulto, un disimpegno non lecito, il tradimento alla gravezza di un tempo che ci vorrebbe fondo e abisso, non marina schiuma, buio e foschia, non chiaro cielo: è vero, a scuola spesso, che se ne dica, capita questo.

E accade nel medesimo istante in cui anche le sofferenze abitano quotidianamente e fin troppo silenziosamente quegli stessi corridoi. Come oggi, quando congedandomi dal cielo terso di Linuccia ho incrociato uno sguardo spento, un sussurrato «ho una brutta situazione a casa prof», parole che frettolosamente noi adulti ci limitiamo a registrare o a svilire come scusa, una casella rossa nel computo delle assenze a malapena notata, il peso di accorgersene poi sempre troppo tardi.

Sì, c’è questa ambivalenza spesso violenta a scuola, come un sole troppo forte dopo ore al buio, o una improvvisa mancanza di luce quando a lungo se ne è stati irradiati. Un «doloroso amore» direbbe sempre Saba, che rende liberi di continuare a difendere senza vergogna la rima «fiore/amore» e in fondo, ora che è primavera, tale da indurmi a rubare fino alla fine le sue parole, per dire a ogni ragazzo e ogni ragazza incontrata stamane che «tu sei come la rondine / che torna in primavera. / Ma in autunno riparte; e tu non hai quest’arte. / Tu questo hai della rondine: / le movenze leggere; / questo che a me, che mi sentiva ed era / vecchio, annunciavi un’altra primavera».

5 aprile 2023