L’Africa e la sfida educativa

Nella Conferenza dei missionari italiani, a Pescara, nell’ambito del G7 Sviluppo, la sfida della cooperazione, nel continente con la più grande popolazione di giovani del pianeta

“Istruzione e formazione per lo sviluppo in Africa: il ruolo delle missioni”. Su questo tema si sono confrontati ieri, 23 ottobre, a Pescara i missionari italiani. Un incontro inserito tra le iniziative del G7 Sviluppo, presieduto dal ministro italiano degli Affari esteri e della cooperazione internazionale Antonio Tajani e moderato dall’inviato speciale per la promozione della libertà religiosa, Davide Dionisi. Presenti vescovi e missionari impegnati nell’educazione e nell’assistenza dei più vulnerabili in diversi Paesi africani. Di seguito l’intervento integrale pronunciato da padre Giulio Albanese, comboniano, direttore dell’Ufficio diocesano per la cooperazione missionaria tra le Chiese

Uno dei contributi più significativi delle missionarie e dei missionari cattolici in Africa è stato, da sempre, l’impegno nella scolarizzazione di vasti settori del continente. Queste istituzioni, che ebbero un grande impulso nel secolo scorso, costituiscono ancora oggi spazi significativi per la formazione integrale delle giovani generazioni. Attualmente le scuole primarie e secondarie cattoliche sono oltre 10mila, mentre le università più significative, vale a dire con un considerevole numero di facoltà al loro interno, sono 15; a queste si aggiungono decine di filiali. Per non parlare, poi, di circa 50 istituti universitari minori con un’offerta accademica più limitata. Con la diminuzione progressiva delle vocazioni missionarie nelle Chiese di antica tradizione come quelle europee, oggi, in molti casi, queste strutture educative sono gestite dalle diocesi locali o da istituti religiosi autoctoni.

Sta di fatto che la posta in gioco è alta, soprattutto dal punto di vista della cooperazione. Credo, pertanto, che tutti dovremmo porci la domanda che Papa Francesco ha rivolto in un video messaggio ai partecipanti al convegno promosso e organizzato dalla Congregazione per l’educazione cattolica: “Global Compact on Education. Together to Look Beyond” del 15 ottobre 2020. Il quesito recitava così: «Se gli spazi educativi si conformano oggi alla logica della sostituzione e della ripetizione e sono incapaci di generare e mostrare nuovi orizzonti, in cui l’ospitalità, la solidarietà intergenerazionale e il valore della trascendenza fondino una nuova cultura, non staremo mancando all’appuntamento con questo momento storico?». I numeri parlano chiaro. L’Africa ha una popolazione di un miliardo e mezzo di abitanti e l’età media è 20 anni.

Nel 2024, il continente africano ha registrato la più grande popolazione di giovani del pianeta. Ed entro il 2050, il 40% di tutte le persone di età inferiore ai 18 anni – circa 1 miliardo di persone – sarà in Africa. Di converso nel 2050 l’Europa rappresenterà poco meno del 5% della popolazione mondiale. Secondo i dati coincidenti delle agenzie dell’Onu e dell’Unione africana (Ua) 98 milioni di bambini nella sola Africa subsahariana non vanno a   scuola e del   totale   dei   minori   dell’intero   continente, una   cifra   che   si   avvicina velocemente al miliardo, ben l’86% faticano oggi a raggiungere l’alfabetizzazione di base entro i 10 anni, una percentuale che si è aggravata con la pandemia di Covid-19, gli effetti della crisi russo-ucraina e che ancora non riesce a decrescere.

Pertanto, se vogliamo davvero sostenere il continente africano, a livello di cooperazione, dobbiamo fissare l’attenzione su alcune priorità. Anzitutto, partendo dal presupposto che i progetti serviranno a poco o niente se non verranno accompagnati da un impegno qui in Europa e più in generale nei Paesi industrializzati nel sostenere iniziative di contrasto ai meccanismi sistemici che determinano e acuiscono la miseria in Africa a partire dalla vexata questio del debito pubblico. Paradossalmente, da quando si è scatenata la crisi finanziaria globale i Paesi africani hanno sostituito il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati – assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity – molto più oneroso e a breve termine. Ecco che allora il debito è stato letteralmente finanziarizzato, con il risultato che il pagamento degli interessi è stato inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. Questo ha comportato costi di servizio del debito e rischi di rifinanziamento più elevati con il risultato che la cifra assoluta del debito ha raggiunto i 1200 miliardi di dollari. Si tratta di un valore assoluto certamente inferiore a quello delle economie avanzate. È però una cifra debitoria elevata se raffrontata al valore complessivo del Pil africano che è di poco più di 3 trilioni di dollari. Per avere un confronto, basti pensare che quello dell’Unione europea (Ue) è di 16 trilioni e mezzo.

In questo contesto a dettare le regole del gioco è la finanza speculativa che considera inaffidabile un paese pesantemente indebitato, e di conseguenza lo emargina di fatto dai mercati finanziari internazionali, costringendolo a pagare più caro il denaro: almeno quattro volte di più di quanto pagano i Paesi economicamente avanzati. Questo si traduce per i Paesi africani non solo nell’assenza di un welfare degno di questo nome, ma anche d’infrastrutture (strade, scuole, ospedali), necessarie sia alla lotta contro la povertà sia alla creazione di condizioni atte ad avviare lo sviluppo, il quale, a sua volta, garantirebbe la restituzione del prestito ricevuto. È evidente che, se la cooperazione internazionale non affronta nelle sedi opportune queste problematiche, le opere sul campo sortiranno nella migliore delle ipotesi un effetto palliativo.

Vi è poi la questione dei finanziamenti. Il 24 ottobre 1970, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che recitava: «Ciascun Paese economicamente avanzato aumenterà progressivamente la propria assistenza ufficiale allo sviluppo a favore dei paesi in via di sviluppo e farà del suo meglio per raggiungere un importo netto minimo dello 0,70 per cento del proprio prodotto nazionale lordo ai prezzi di mercato entro la metà del decennio».

Tale impegno è stato ribadito nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, adottata all’unanimità dai 193 Paesi membri dell’Onu con la risoluzione del 15 settembre del 2015. Dopo oltre cinquant’anni, pochi Paesi hanno però raggiunto quel traguardo: per prima la Svezia nel 1974, seguita dalla Olanda, dalla Norvegia, dalla Danimarca e dal Lussemburgo. Nessun altro Paese lo ha rispettato e la media di quelli firmatari non è mai stata superiore allo 0.50 per cento del Pil.

Per quanto concerne i temi di lungo periodo a livello educativo, se s’intende davvero aiutare l’Africa è evidente che occorre fissare l’attenzione  sulla ricerca per lo sviluppo, vale a dire la promozione di una innovazione endogena al continente, ma anche incentrata sulla  formazione istituzionale, cioè empowerment, ownership and trust building e infine è imprescindibile riaffermare la condivisione di saperi e tecnologie che, come già detto, rappresentano il fulcro delle attività missionarie svolte nelle scuole e università cattoliche, con l’obiettivo precipuo di contribuire alla condivisione di conoscenza, valorizzando il ricco capitale umano di un continente in cui, come già detto, la stragrande maggioranza della popolazione è giovane.

Vorrei concludere citando Kwame Nkrumah, primo premier e poi primo presidente del Ghana indipendente, che oltre a essere stato il grande visionario del “Panafricanesimo”, non perse mai occasione per elogiare il contributo educativo della Chiesa cattolica finalizzato al progresso dell’Africa. Egli ebbe modo di parlarne in un incontro privato con il futuro Papa Montini quando quest’ultimo ancora ricopriva la carica di sostituto della Segreteria di Stato. D’altronde, Nkrumah era stato egli stesso allievo dei missionari e poi insegnante nelle loro scuole. Nel 1957, intervenendo in una conferenza agli universitari a Friburgo in Svizzera, lo statista ghanese disse queste testuali parole: «La persona che mi ha presentato ha detto che io sono il responsabile del ridestarsi di questo grande continente. Credo che non sia vero. Se vogliamo considerare la situazione in modo più esatto, debbo dire che i responsabili della presa di coscienza della nostra dignità di africani sono stati i missionari cristiani con le loro scuole».

Questo è uno dei tanti motivi per cui ancora oggi dobbiamo essere orgogliosi dei nostri missionari e delle nostre missionarie.

24 ottobre 2024