L’affresco di Tarantino su Hollywood alla fine degli anni ’60

Sul grande schermo una parabola tra sconfitta e rivincita, tra fine e rinascita. Il tutto avvolto da una ariosa, dinamica regia che accarezza le immagini

Sulle locandine si parla di questo come del film numero nove di Quentin Tarantino. Non è da escludere che il ricorso alla numerazione sia già una sorta di omaggio subliminale (ma poi nemmeno tanto) al Federico Fellini di “8 ½” , una sorta di ammiccamento al maestro che con mezzo film in meno aveva già fatto tanto nella storia del cinema. Già, perché per arrivare ai nove film finora conteggiati, bisogna partire da Le Iene (1992) e poi mettere sul conto i successivi Pulp Fiction (1994), Jackie Brown (1997), Kill Bill volume 1 e 2 (2002 – 2003), Grind house – A prova di morte (2007), Bastardi senza gloria (2009), Django Unchained (2012), The Hateful Eight (2015), fino a questo C’era una volta a…Hollywood. Dove la particolarità è offerta proprio da quella “a” messa tra i puntini di sospensione, a significare un luogo preciso, a dire le coordinate del posto voluto: Hollywood, appunto, quello e non un altro. Come se Sergio Leone avesse intitolato il suo poema “C’era una volta nel West”.

Da tempio ampiamente pubblicizzata e presentata con grande sfarzo mondano al Festival di Cannes del maggio scorso, questa ultima fatica di Tarantino è uscita nelle sale italiane mercoledì scorso. I titoli sopra citati servono a ricordare che quella del regista americano (nato a Knoxville nel 1963) è una filmografia densa, fin troppo sovraesposta, fin dall’inizio concentrata sui temi dell’azione, della violenza, di abbondanti efferatezze visive e verbali, talvolta controllate talaltra eccessivamente sbrindellate. Tarantino è diventato negli anni l’autore di un cinema che più sottolineava certe situazioni individuali e collettive più le restituiva con il marchio dell’originalità. Riuscendo cosi a creare un mondo fantastico, autoriale e incisivo, segnato da personaggi forti e spietati, con l’aggiunta di frequenti dosi di umorismo. Certe volte il peggio degli uomini stempera nell’eccesso e una buona dose di ironia arriva a mitigare la cattiveria. Ma bisogna prendere certe situazioni, per così dire, dalla parte giusta, quella di una malvagità quasi bifronte, sprofondata in un disperato incontro/scontro tra finzione e realtà. Da questo punto di vista ogni film è un po’ la somma di tutti i precedenti (anche qui incombe Fellini).

Così succede infatti in questo grande affresco della Hollywood fine anni Sessanta. C’è un mondo, ci sono tanti mondi nell’universo di quegli anni, un periodo pieno di sussulti e cambiamenti nel cinema, nella storia, nella società. E anche, certo, nella televisione: che già in quel periodo aveva segnato molti punti al proprio arco, a danno del cinema che cominciava ad accusare il colpo del “nemico”. Tra autostrade e spazi sterminati, la California si mostra per quello che era: un luogo senza confini, terreno di follie, di azioni sconsiderate, di libertà assoluta pronta ad incontrare ribelli e visionari di ogni tipo. È la fotografia del 1969, anno a suo modo storico per aver toccato oggetti e persone con la rabbia dolce di chi vuole rifare tutto e sa che quello è l’unico posto dove l’impossibile può accadere. Anche questo film di Tarantino è una parabola tra sconfitta e rivincita, tra fine e rinascita. Il tutto avvolto da una ariosa, dinamica regia che accarezza le immagini. Forse un film troppo lungo (161 minuti) ma una lunghezza motivata perché la finzione non finisce mai di stupire.

23 settembre 2019