“L’affido”, due genitori contro e il dramma dei bambini

Nelle sale il film di Xavier Legrand, presentato alla 74ª Mostra di Venezia, dove ha vinto il Leone d’argento per la migliore regia. Costruito sulla paura di un uomo violento, pronto a tutto pur di tornare con la donna che è scappata da lui

Ammessi subito in un’aula di tribunale, siamo chiamati ad assistere alle motivate argomentazioni che mettono di fronte i genitori. Da un lato la mamma, Myriam, cerca di ottenere l’affido esclusivo di Julien, il figlio undicenne; dall’altro il padre Antoine, riesce ad ottenere dai giudici l’affido congiunto.

Nel prologo, di taglio prettamente giudiziario, si gettano le premesse per tutta la successiva vicenda di “L’affido”. Il film, di Xavier Legrand ( nella foto), produzione francese, (titolo originale Jusqu’ à la garde), è stato presentato alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel settembre scorso, dove era in concorso e ha vinto il Leone d’argento per la migliore regia e il Leone del futuro Premio Venezia Opera Prima “Luigi De Laurentiis”. Dal 21 giugno è nelle sale italiane, destinato a suscitare attenzione e smuovere pareri contrastanti all’interno di una polemica quale quella del trattamento dei bambini, figli di genitori separati.

« L’affido – spiega il regista – è costruito sulla paura. La paura di un uomo pronto a tutto pur di tornare con la donna che è scappata da lui a causa del suo comportamento violento. Il personaggio di Antoine è una minaccia costante per chi gli sta intorno. Mette tutti in tensione, è in grado di percepire solo il proprio dolore ed è disposto a manipolare chiunque, persino i suoi figli». Risultato di una profonda attenzione sul lavoro di giudici, avvocati, poliziotti, lavoratori sociali, il prologo chiarisce bene come il regista si sia attestato sulla precisa volontà di essere stringato, sintetico, essenziale. Dopo quel momento il racconto corre spedito verso una sorta di precipizio narrativo rapido e inarrestabile.

In effetti il vero protagonista, negativo, è Antoine, o meglio Antoine e il figlioletto Julien: è tra loro due che si apre una sorta di sfida a colpi sempre più sottili di psicologia e di pensieri non detti. Il silenzio, nella parte centrale, assume un ruolo sempre più determinante, perché spacca la linearità del rapporto padre/figlio e obbliga a lasciare tutto fermo, in attesa di una esplosione che crea tensione e suspence emotiva. Sono questi i frangenti in cui la regia scandisce con caparbietà e incisività il crescere di aggressività da parte del padre, di tremori e paure da parte dell’adolescente. Un sentirsi debole e indifeso che causa l’allentamento della resistenza (Julien è costretto a rivelare dove vive la madre) fino all’esplodere in un pianto liberatorio che significa la fine delle difese proprie dell’età. Di fatto quando Antoine esplode di rabbia anche a casa dei genitori e con brutalità porta via il figlio, la vicenda può dirsi praticamente conclusa.

Resta l’acutizzarsi del male di vivere dell’uomo incapace di mettere in campo la ragione invece di dare libero sfogo alla follia. «Non inserisco nella storia degli elementi di fantasia – precisa Legrand – preferisco catturare i rumori di una realtà che produce ansia (…)». La perfetta distribuzione degli elementi stilistici contribuisce non poco a creare quella omogeneità che costruisce la solidità del racconto. Se quello di Antoine, interpretato da Denis Menochet, è un personaggio inevitabilmente “antipatico” e destinato a essere odiato dallo spettatore, anche gli altri, dal bambino Thomas Gloria alla mamma Léa Brucker, si segnalano per rigore e forte realismo. Film duro, stringato, essenziale e impeccabile. Da vedere e da dibattere.

 

26 giugno 2018