La vita consacrata, una chiamata personale

«Ogni chiamato dovrebbe sentirsi in dovere e in diritto di mostrare la sua personale appartenenza al maestro»

«Ogni chiamato dovrebbe sentirsi in dovere e in diritto di mostrare la sua personale appartenenza al maestro»

Quando rifletto sugli elementi che caratterizzano la vita consacrata, mi vengono in mente soprattutto due riferimenti al Nuovo Testamento: uno è quello della «vocazione» dei dodici nella redazione del vangelo di Marco 3, 19; l’altro è quello dei cosiddetti «sommari» degli Atti degli Apostoli. Fermiamoci, questa volta, sul testo del Vangelo di Marco, dove ci si accorge che l’intenzione di Gesù nel chiamare i Dodici è quella: primo, di averli con sé: «perché stessero con Lui»; secondo, di mandarli a predicare; terzo, perché, grazie ad una forza speciale garantita da Lui, siano in grado scacciare demoni di tutti i tipi. Si tratta, mi sembra, di tre caratteristiche che dovrebbero permettere di identificare qualunque tipo di chiamata o “vocazione” ma anche di una sorta di gerarchia di valori che dovrebbe essere tenuta presente sempre, da tutti i discepoli, quale che possa essere il carisma proprio di ogni singolo chiamato.
L’evangelista Marco aggiunge poi anche un quarto elemento che non possiamo permetterci di trascurare e che si evidenzia in questa osservazione determinante: «E fece/costituì i Dodici». L’evangelista Giovanni avrebbe spiegato meglio questa particolare intenzionalità, avuta da Gesù fin dall’inizio, nel chiamare i Dodici ad uno ad uno, con varie espressioni del discorso cosiddetto «sacerdotale» che si potrebbero sintetizzare in quel: «Ti prego, Padre, che siano una cosa sola come noi siamo una cosa sola» (Gv 17,22). La vita consacrata non può non partire da questo che resta “l’archetipo” di ogni vocazione.
Ma cosa comporta tutto questo? Anzitutto,  si tratta sempre di una chiamata squisitamente personale, come viene evidenziato dallo stesso Marco, con l’immediata lista dei Dodici chiamati uno per uno, per nome e col tentativo di identificarli con le rispettive identità personali, non sottovalutando neppure quelle negative. Il che dovrebbe farci capire che ogni battezzato è chiamato “personalmente” ed è chiamato con tutto ciò che lo distingue dagli altri senza che questa chiamata debba essere vista come “un di più” nei confronti di ogni altra forma di “vocazione” cristiana.

Ogni chiamato, infatti, dovrebbe sentirsi in dovere e in diritto di mostrare la sua personale appartenenza al maestro, quale che possa essere il servizio o compito che le sue caratteristiche individuali gli permetteranno di svolgere all’interno dell’unica appartenenza alle Dodici tribù del Popolo di Dio, ricevuta grazie al dono della “chiamata” da parte dell’unico Signore. Aggiungo una mia convinzione personale: finché i membri appartenenti a diverso titolo ad una forma di vita consacrata non riusciranno a mettere da parte la pretesa – così la chiamo io – di trovarsi istituzionalmente in una situazione ritenuta “più perfetta” rispetto a quella degli altri battezzati, non riusciranno a superare assolutamente la crisi che li sta lacerando in questi ultimi anni. Ho infatti, l’impressione che sia entrata a tal punto a far parte della mentalità degli appartenenti alla vita consacrata la convinzione di essere, o dover essere un “di più” rispetto agli altri battezzati, da essere finiti in una valutazione decisamente “mondana” della loro chiamata. E questo, nonostante che alcuni Documenti, perfino sinodali, sembrino parlare con un linguaggio diverso. C’è chi si logora per un’intera vita, all’interno delle istituzioni di vita consacrata, su cosa debba fare “di più” rispetto agli altri, e come e quando e in che misura, per poter mostrare ciò che, a occhio nudo, si rivela essere un’inclinazione chiaramente “idolatrica”. E questo, perfino all’interno di decisioni che vorrebbero essere niente altro che la testimonianza di chi vorrebbe che «nulla, assolutamente nulla, sia anteposto all’amore di Cristo».

Dimenticando che “nulla” vuol dire proprio “nulla”, compreso il «volli sempre volli fortissimamente volli» del diventare “santo” a tutti i costi o del perseguire la cosiddetta meta della “perfezione”. Sappiamo tutti che solo Dio è “Santo” e solo Dio è “Buono”, come si sentì dire direttamente da Gesù il giovane ricco del Vangelo. Se noi, cosiddetti “religiosi” non ci decidiamo a convincerci che è veramente perfetto chi è sinceramente cosciente di non poterlo essere mai (come insegnava San Gregorio di Nissa), non avremo mai la libertà di rispondere all’invito di Gesù: «Lascia tutto quello che hai», perché in quelle parole di Gesù non si trattava soltanto di ricchezze esterne, ma anche di supposti meriti acquisiti con la coerente ascesi moralistica ereditata dalle etiche dettate dalla propria appartenenza all’una o all’altra delle famiglie umane, prescindendo dalla grazia di Dio, perché si diceva : «Aiutati che Dio ti aiuta».

Come faremo a rispondere a quel «segui me» così categorico da parte di Gesù se siamo ancora smarriti nel labirinto del “perfetto” o del “più perfetto” con tanto di distinzioni tra “vita attiva”, “vita contemplativa”, “vita mista”, pretendendo così di definire dall’esterno, con i cosiddetti criteri giuridici delle nostre regole, costituzioni, dichiarazioni, direttori, decreti, rescritti, etc, autenticati con tanto di timbro e firma dai magisteri ordinari, straordinari, paraordinari, etc, le infinite forme in cui si esprime, con assoluta libertà, lo Spirito che nutre da sempre la Chiesa e «i color vari suscita ovunque si riposa»? Viene proprio da sorridere con simpatia e – perché no,- con un pizzico di ironia, quando, di fronte ad un problema qualunque che non potrà fare a meno di affacciarsi qua o là in ogni gruppo, famiglia o comunità “religiosa”, ci si riferisce all’esperto in diritto canonico o più ancora all’esperto psicologo, o a qualcosa di simile, e non invece a qualcuno che possieda le capacità di una penetrazione più autentica e piena della Parola evangelica compiuta in comunione, soprattutto d’amore e non soltanto giuridica, con la Madre Chiesa.

Attenzione! Non sto dicendo che certe specializzazioni non possano essere anche estremamente utili, in certi casi o forse sempre. Sto dicendo invece, che si dovrebbe essere ben consapevoli della assoluta loro secondarietà. La grazia di una chiamata personale viene unicamente dal Signore, a Lui conduce e di Lui si nutre, perché in Lui, e unicamente in Lui, si invera. Gli strumenti devono restare appunto, strumenti e non pretendere mai di potersi sostituire all’ineffabile dono della grazia. Madre Teresa di Calcutta, con cui grazie a Dio ho avuto una certa vicinanza, quando venne a Roma, qui, a San Gregorio, ingenuamente le feci un’osservazione, mentre eravamo soli noi due a colazione, dicendole: «Madre, ho osservato che lei ha ammesso al noviziato una ragazza gravemente handicappata, cosa che va contro le prescrizioni canoniche!». Mi rispose: «Padre Innocenzo, se una mamma concepisce e partorisce un figlio handicappato gli negherà forse l’amore materno a causa di qualche malformazione nel corpo o nella psiche? O non sarà spinta invece ad amarlo con maggiore amore? Così io ho ricevuto dal Signore il dono di questa figlia. Non sarei forse una mamma snaturata se non l’amassi, se possibile, con maggiore amore»?.

Così ragionavano i nostri fondatori ma così ragionava Gesù! C’è qualcuno che possa permettersi di agire altrimenti, accampando motivazioni giuridiche o di qualunque altra scienza semplicemente umana? Ma proprio questo – lo credo fermamente – si dovrebbe tener sempre presente a proposito del corpo, dell’anima e dello spirito, in ogni forma di vita consacrata o, per meglio dire, cristiana. Questo, niente altro che questo, chiedeva forse Gesù a quel ragazzo che si riteneva osservante perfetto dei comandamenti di Dio fino dall’ infanzia, e non aveva avuto mai occhi capaci di piangere sulle sofferenze altrui. Siamo arrivati al punto di sentirci fortunati se nelle nostre comunità religiose i Superiori, madri o padri, assommano nella stessa persona la professione di medico, psicologo, manager, economista, prima ancora di aver verificato la presenza o meno, in quelle stesse persone, del carisma dell’”uomo/donna di Dio”.

E spesso, purtroppo, queste particolari persone partono dal riconoscimento di questi loro carismi per autoproporsi esperti perfetti anche nelle cose che riguardano lo spirito, pretendendo di avere perciò l’ultima parola, quella decisiva, in tutto, a scapito di chi magari ha meno doti di loro ma è stato reso maturo dal Signore, grazie alla sua sincerità, alla purezza di cuore e alla preghiera continua nell’ascolto della Parola di Dio e dei bisogni spirituali degli altri. Quando riusciremo a condividere la nostra particolare forma di vita, senza giudicare nessuno e senza sentirsi umiliati, di fronte alla presenza di qualcuno in comunità che genera oggettivamente disturbo a tanti livelli a causa della sua personalità ma scoprendolo, con riconoscenza al Signore, come l’occasione propizia per verificare l’amore, e dunque l’autenticità della nostra obbedienza al Vangelo, nella cosiddetta vita consacrata?

30 gennaio 2015