La Via Crucis del 2005, Wojtyla prega in cappella

La cronaca su Roma Sette del celebre rito pochi giorni prima della morte di Giovanni Paolo II con le meditazioni scritte dall’allora cardinale Joseph Ratzinger

La grande croce disegnata con il fuoco davanti al Colosseo. Lo stesso che brilla in cima alle candele strette dalle mani dei fedeli. Una folla con i volti del mondo, raccolti intorno alla via da seguire per perdere se stessi ed incontrare Cristo, per socchiudere le labbra al saluto universale «Ave Croce, unica speranza». La Via Crucis è stata ancora una volta quella del Papa, lontano, malato, e proprio per questo più che mai presente nel dono totale di sé: «Offro anch’io le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti», ha ricordato nel messaggio letto dal cardinale Ruini all’inizio del rito.

I colori della cappella del Palazzo Apostolico, da cui Giovanni Paolo II ha seguito in televisione l’intero rito, si uniscono a quello della preghiera che dai piedi del Palatino rischiara di speranza la notte della morte. è il cardinale vicario a portare il simbolo della Passione durante la prima e la seconda stazione, legno giovane del sacrificio che prelude al trionfo pasquale ma testimonia nel contempo il male a cui l’uomo inchioda la sua unica possibilità di riscatto. «è il nostro peso a farti cadere», afferma infatti in una delle meditazioni scritte per l’occasione il cardinale Joseph Ratzinger, che aggiunge: «Aiutaci a rialzarci per poter rialzare gli altri». Parole schiette, a volte dure, quelle scritte dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ed incentrate attorno al tema della caduta.

Caduta di Cristo, lungo il cammino verso il Golgota, schiacciato dalle colpe dell’umanità; caduta dell’uomo indirizzato verso un «nuovo paganesimo, peggiore, che volendo accantonare Dio ha finito per sbarazzarsi dell’uomo». Caduta, a tratti, persino della Chiesa: «Quante volte celebriamo solo per noi – ricorda –, quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote». Un richiamo severo contro la sottovalutazione del male e la serietà del peccato, che non cede mai al senso del ripiegamento o della sconfitta, ma si fa piuttosto sofferta invocazione: «Aiutaci a riconoscere in quest’ora di oscurità il tuo volto, donaci una fedeltà che resista nello smarrimento». Ad essa si unisce la folla in un silenzio che si può quasi toccare: nei visi di una coppia che prega, stretta nel coraggio di un abbraccio; negli occhi chiusi dei bambini che molti hanno voluto portare con sé; nella commozione di un anziano che fissa la croce mentre passa tra mani che fanno il giro del mondo. Quelle di due frati francescani della Custodia di Terra Santa, di una religiosa indiana, di una laica sudcoreana, di una famiglia romana (marito, moglie e tre figli), di una laica cingalese, di un’altra famiglia, albanese, che l’affida ad un giovane del Sudan. A sostenere le torce durante l’intero percorso due ragazzi della diocesi di Roma, che la seguono anche quando torna nelle mani del cardinale vicario per l’ultima stazione, la quattordicesima. I maxischermi inquadrano nuovamente il Papa – seduto davanti all’altare della cappella, sotto il quale è collocato un grande televisore – mentre stringe ora il crocifisso con forza, sostegno ad un corpo e ad una volontà che si fanno presenza d’amore. A lui, dopo la benedizione finale del cardinale, va l’applauso delle migliaia di presenti. (di Francesco Lalli)

27 marzo 2005