La sofferenza porta d’ingresso alla richiesta di aiuto

L’importanza di dare un nome alle proprie emozioni. Soffocarle in una “scatola” porta ad ansia e anche a disturbi fisici

Nel lavoro di terapia una fra le domande che più spesso vengono poste ai pazienti è ”come si sente in questo momento?” o “come si è sentito in quella situazione?” (appena descritta dalla persona). La ricerca di cosa prova il paziente è un elemento fondamentale della relazione di aiuto: invitare la persona a focalizzarsi sulle sue emozioni lo stimola a riflettere sull’impatto che gli eventi hanno sul suo stato d’animo, ma anche a dare un nome e un significato a quelle sensazioni (spesso vissute a livello corporeo) che inizialmente sembrano non avere un rapporto diretto con la sua esperienza.

Infatti la risposta alle domande sul “sentire” è spesso: “Ho l’ansia!” oppure “Mi sento agitato” o “nervoso”. L’ansia, l’agitazione e il nervosismo in realtà non sono emozioni in senso stretto, ma sono sensazioni che le persone sperimentano con più o meno intensità e che mettono in allerta, in particolare quando queste sensazioni occupano gran parte della giornata e l’individuo ha la percezione di non poter fare a meno di focalizzarsi su di esse.

Una ragazza di 25 anni entrava ad ogni seduta condividendo un elevato stato di agitazione: quando le chiedevo di raccontarmi cosa le stesse accadendo riportava una serie di pensieri di natura catastrofica in cui si immaginava (in un futuro prossimo) di non superare un esame all’università o di non essere sufficientemente piacevole e in grado di passare una serata con delle amiche. Questa ragazza era inizialmente consapevole solamente del potente stato di ansia che sperimentava quotidianamente, svalutando le emozioni sottostanti al suo continuo stato di attivazione.

La strategia che era riuscita a trovare per affrontare la sua ansia era quella di dormire o vedere la televisione per ore. Accompagnando questa ragazza nella sua ricerca di gestione ed elaborazione del suo stato ansioso è emerso come, in realtà, fosse spaventata di non riuscire a far fronte agli eventi della sua vita (esami, rapporti con i coetanei, organizzazione delle giornate), convinta di non essere in grado, né capace di risolvere i problemi che incontrava. Ogni volta che si sentiva arrabbiata con qualcuno (amiche, genitori o fidanzato) si percepiva ancora più in ansia poiché il conflitto con l’altro lo leggeva come ennesima conferma di avere qualcosa che non funzionasse in lei. Si impediva di mostrarsi triste poiché convinta fosse sintomo di debolezza e quindi incapace. Raramente si dava il permesso di essere gioiosa pensando automaticamente a prepararsi al prossimo ostacolo.

Immaginate per un momento l’ansia come una scatola chiusa: dentro ci finiscono (inconsapevolmente) tutte le emozioni a cui non viene dato spazio e ascolto, si crea una massa informe per cui non si riesce più a distinguere il contenuto. Ciò che resta è solamente questa scatola ben chiusa e pesante: la persona non si accorge che molte delle sue energie sono impegnate a tenere questa scatola sigillata e nascosta, e il prezzo da pagare è quello di portare la scatola (quindi l’ansia) sempre con sé.

Perché è importante aprire la scatola e far uscire le emozioni ammassate al suo interno? Per rispondere capiamo meglio cosa sono le emozioni: «sono flussi di energia, stati di attivazione che coinvolgono il cervello e altri sistemi dell’organismo, e influenzano l’elaborazione delle informazioni attraverso processi di valutazione dei significati» (D.J. Siegel). Sinteticamente possiamo individuare tre fasi nel processo di risposta emozionale: in un primo momento uno stimolo esterno o interno evoca una sensazione fungendo da “campanello” a cui prestare attenzione; subito dopo inizia a svilupparsi la sensazione vera e propria: “questo è buono” oppure “questo è cattivo”.

È da qui che iniziamo a creare il significato di ciò che ci sta accadendo. Questo processo inizia nei primi anni di vita ed è il principale mezzo di comunicazione tra bambino e genitore. Le emozioni si creano, dunque, all’interno delle relazioni con l’altro e la qualità di questa interazione influisce sulle capacità di valutazione del proprio stato emotivo. Infine arriviamo a distinguere quella che comunemente chiamiamo emozioni: tristezza, rabbia, gioia e paura. La capacità di dare senso al proprio stato emotivo deve passare necessariamente per un processo di valutazione cognitiva: pensiero ed emozione sono, quindi, processi strettamente legati.

Tornando all’esempio precedente, dunque, emerge come la difficoltà della paziente a utilizzare le sue emozioni come informazioni rilevanti della sua esperienza, fosse motivo di disagio e sofferenza. Questa ragazza aveva imparato, nella sua storia relazionale passata, a soffocare le sue emozioni autentiche, convinta di non potersi mostrare per come era: si impegnava costantemente ad assumere un ruolo in cui vestiva i panni della ragazza sempre disponibile e compiacente verso gli altri: quando aveva la sensazione che qualcosa non andasse (il “campanello”) archiviava questa informazione come “da evitare” e investiva tutte le sue energie a funzionare come aveva sempre fatto. Questa rigidità impedisce alla persona di modificare le risposte automatiche agli eventi, rendendo difficoltoso acquisire capacità di regolazione del proprio stato emotivo flessibili e più efficaci.

È proprio da questo processo che nasce la metafora della scatola: quando lo spazio non è più sufficiente le persone iniziano a sperimentare sensazioni sgradevoli che definiscono sotto il nome di ansia, associate spesso a sintomi fisici come mal di testa, mal di stomaco, tachicardia o fame d’aria.

La sofferenza può diventare una porta d’ingresso alla richiesta di aiuto: preoccupate e affaticate dal generale stato di ansia, le persone possono scegliere di prendersi cura di sé iniziando un percorso di terapia, mettendosi in gioco nella relazione con l’altro. Sintonizzarsi sui bisogni emotivi della persona che il terapeuta ha di fronte permette la creazione di nuovi significati e nuove capacità di regolazione: raccontare le proprie esperienze in terapia facilita la costruzione di una nuova narrazione che stimola l’integrazione di aspetti di sé fino a quel momento non accessibili. Per Siegel, infatti, «le esperienze interpersonali plasmano le strutture e le funzioni del cervello da cui emerge la nostra mente…. Il rapporto terapeuta-paziente riflette in molti modi quella che dovrebbe essere l’essenza delle relazioni umane: comprendere e accettare gli altri per ciò che sono, cercando contemporaneamente di alimentare un’ulteriore crescita e integrazione» (Guido Palopoli)

 14 giugno 2019