La “rivoluzione della carità” di don Pietro Sigurani
Presentato il libro di Romano Cappelletto ed Elisa Storace sul “prete dei poveri”. «Non voglio essere buonista, il buonismo fa male ai poveri; bisogna essere giusti»
«Lo Stato deve fare lo stato sociale, la Chiesa non deve sostituirsi: deve fare la carità con la carità. Io non posso sostituirmi allo Stato prendendo contributi e il motivo è semplice: chi va al mulino si infarina e a chi maneggia soldi… purtroppo spesso si incollano alle mani». La linea di don Pietro Sigurani non cambia. Il “prete dei poveri”, 83 anni e sacerdote da quasi 60, continua a vedere Dio nell’altro e a confidare nella Provvidenza. Lo ha spiegato ieri sera, 23 ottobre, nella Galleria d’arte in piazza di Spagna 9, dove è stato presentato il libro di Romano Cappelletto ed Elisa Storace “Poveri noi! Don Pietro Sigurani: la rivoluzione della carità” (Ed. Paoline, pp. 144, € 15). Un libro nato da un episodio di cronaca, quando il 23 gennaio 2019, giorno del suo compleanno, don Pietro, trovò due biglietti intimidatori, in particolare uno sull’altare che in sostanza lo accusava di sacrilegio e profanazione per aver trasformato la basilica di Sant’Eustachio nel «ristorante dei poveri», dove chiunque ne abbia bisogno può essere «invitato a pranzo», ogni giorno dal lunedì al sabato «perché la domenica ci sono le Messe».
«La Provvidenza c’è» ribadisce don Pietro, raccontando un «fatto di stamattina. Mi telefona dal Sahara tunisino, dove abbiamo realizzato un centro per disabili, ovviamente tutti musulmani, una persona che aveva avuto incidente gravissimo. Mi racconta che il figlio ha un processo a Sfax ed è senza un soldo. Gli ho mandato 250 euro, pur avendo tante altre preoccupazioni. Nel pomeriggio vado in farmacia, compro medicine, anche per i poveri, e la farmacista mi fa: sono 250 euro. Però gliele regalo. Non sapeva quello che mi era successo la mattina… Siamo noi che non scomodiamo la Provvidenza». Eppure ogni giorno la basilica rinasce: «Sono i poveri che portano avanti tutto», dice don Pietro. E così è stata realizzata la Casa della Misericordia, un centro diurno per senza tetto con docce e vari servizi. 340mila euro arrivati senza contributi pubblici. E a chi ha lasciato quei biglietti, che si reputa evidentemente un cristiano impeccabile, don Pietro dice solo di «pensare se sono parole in sintonia col Vangelo».
Ma non mancano gli ostacoli. Lo dimostra la storia della copertina del libro, regalata da Maupal, uno dei tre street artist che esponevano nella Galleria, presente al finissage della mostra “No borders”, che ha fatto da cornice alla presentazione del libro. L’artista ne aveva infatti ideata un’altra che rappresentava don Pietro mentre “sparava” con una P38 ad acqua benedetta. «Quando si discuteva dei decreti sicurezza, di armi, ho chiesto ai poveri: ma tu l’ammazzeresti una persona? Tutti mi hanno detto no e allora ho pensato: la Domenica delle Palme io do i rami d’ulivo e i poveri la pistola ad acqua. Ho dovuto ridimensionare il progetto, quando è venuta una persona, uno di quelli che avevano ostacolato l’ingresso della famiglia rom a Casal Bruciato, e mi ha detto: “Prete, noi c’avemo le pistole vere, se non la smetti di accogliere zingari e stranieri stai attento, noi c’avemo le pistole vere”. Così ho evitato di esporre i poveri a rappresaglie. Vanno difesi, la Scrittura direbbe come la pupilla degli occhi: sono la pupilla dell’umanità. Chi vede il povero s’accorge che ha un cuore, chi passa oltre non s’accorge di avere un cuore che batte».
Don Pietro è noto anche come “l’imam cattolico”. Perché? “Ho lavorato tanto nel Sahara tunisino – racconta -: abbiamo costruito case per i poveri, messo su una scuola per sordomuti, la prima in Tunisia. Ci vado con dei gruppi da 40 anni. Lì nelle moschee non si può entrare, tanto meno nei santuari islamici. A noi ci fanno entrare dappertutto perché non abbiamo interessi, tutto si fa per loro gratuitamente. Abbiamo portato in Italia oltre 400 ragazzi (quando la legge Turco Napolitano lo permetteva, ndr), gli abbiamo trovato lavoro. Le donne non potevo portarle per motivi di prudenza. E allora abbiamo tirato su una fabbrica di frigoriferi per i datteri dove oggi lavorano 100 donne. Addirittura il responsabile culturale della moschea di Roma è un marocchino mio allievo, diventato medico. Così non ci sono barriere. Che differenza c’è: sono esseri umani nascono si sposano, si ammalano, gioiscono, vanno a scuola, amano, discutono… che differenza c’è tra il ritmo di vita di un cristiano e di un musulmano, di uno scintoista o di un ateo?».
Il sacerdote non chiede soldi alla politica ma «una legge seria, onesta, giusta perché si possa entrare in Italia legalmente. Perché non la fanno? La lotta all’immigrato porta voti. Non voglio essere buonista, il buonismo fa male ai poveri; bisogna essere giusti. L’ho chiesta tante volte ma non interessa, toglierebbe il guadagno elettorale sulla pelle dei migranti e questo è una vergogna». Don Pietro insiste sulla dignità dei poveri e spiega come finisce la storia di Francesco, narrata nel libro, a cui aveva affidato la gestione della Casa della Misericordia. «È venuto con me in televisione, ha raccontato la sua vicenda e una vedova di Rovigo si è innamorata. Anche lui è vedovo, si sono visti, è andato su, hanno deciso di sposarsi. Una vita risolta. Tante vite si risolvono se ridiamo dignità alla persona». Ma in tutto questo, la figura di Gesù non rischia di finire in un angolo, di essere offuscata? «No – risponde con sicurezza don Pietro -, lo faccio in chiesa. Sa cosa dico loro, anche ai musulmani? Vedete, siete in chiesa e la cosa bella è questa: voi non sapete che c’è Gesù però Gesù vi guarda, è lui che vi accoglie. Un Gesù che non dà da mangiare che Gesù è? Il nucleo del cristianesimo in fondo è una tavola imbandita, cenare insieme».
Da sottolineare che parte del ricavato del libro, che sarà in libreria dal 25 ottobre e che Elisa Storace ha voluto dedicare ad Angelo Paoluzi, recentemente scomparso, servirà ad aiutare le iniziative caritatevoli di don Pietro.
24 ottobre 2019