La responsabilità della politica nel terreno della quotidianità

Anche la scuola si trova infiltrata da rigagnoli velenosi nella complessità di un mondo che cambia, complici certi linguaggi e riduzioni della realtà. Il rischio: irruzioni di elefanti dentro cristallerie di rapporti vitali

In questi tempi di campagna elettorale polemica, urlata, giocata su temi seri, alcuni imposti da eventi drammatici, mi sono ritrovato a riflettere sul peso delle responsabilità della politica. In sé l’espressione, “responsabilità della politica”, potrebbe suonare svuotata di senso, stereotipata, priva di peso. Io stesso ne sento a scriverla la patina d’astrattezza. Ma è stato un episodio ben preciso, capitatomi recentemente a scuola, a portarmi a forza sull’urgenza della riflessione.

Suona la ricreazione. I ragazzi si alzano tra il baccano solito e il trascinare delle sedie. Io rimetto a posto i miei libri nella borsa. Esco sul corridoio e mi avvio in aula docenti. Come spesso capita intercetto a caso le frasi dei ragazzi che sciamano. Ne colgo una che mi blocca: «Ah, ma io quest’anno voto, basta negri». Non faccio in tempo a vedere in faccia chi l’ha pronunciata ma credo di riconoscere la voce. Faccio in tempo anche ad alzare gli occhi e a vedermi sfilare davanti un secondo alunno di colore, proprio dietro al primo, con il quale incrocio lo sguardo. Un istante di silenzio, solo mio, nel rumore. Gli occhi negli occhi. In un attimo sparisce alla mia vista. Arrivo in aula docenti, poso la borsa sul tavolo, provo a riordinare i pensieri.

Penso al primo alunno, a quello che ha detto quella frase violenta. Uno come tanti, magari ha poca voglia di studiare, ma quest’anno si sta impegnando, il suo insegnante sarà contento di lui. È solare, ben voluto dai compagni, i genitori sono ottime persone. L’altro alunno di colore è anche lui un bravo ragazzo. Lo penso lo stesso un po’ svogliato ma anche lui in ripresa, sorrido per quella cadenza dialettale molto spinta, come capita spesso alle seconde generazioni scolarizzate in Italia. Non escludo affatto che i due siano compagni di classe, addirittura amici, che condividano la stessa passione per il calcio, magari giocano persino insieme al Fantacalcio. E allora le domande iniziano a grandinare nella mia mente.

Perché? Perché il primo alunno ha detto quelle parole? Mi domando se due, tre anni fa, le avrebbe dette con quella leggerezza. Mi rispondo che no, non le avrebbe dette, di questo sono certo. Come sono certo che nella mente non abbia minimamente considerato il compagno che gli era accanto nel pronunciare quelle parole. E l’altro alunno, quello sguardo che incrociandomi mi ha affidato, cosa mi ha detto, cosa farne, come gestirlo? Perché? Perché questi ragazzi stanno cambiando? Perché la scuola che conosco, dove nel silenzio sano della quotidianità in questi anni ho visto moltiplicarsi e fiorire i segni di un mondo nuovo fatto di integrazione e rispetto, oggi si trova infiltrata da rigagnoli velenosi come questo?

Domande complesse, ma forse nemmeno troppo. Nemmeno troppo se si ha il coraggio di ammettere come, al netto della complessità di un mondo che sta cambiando vertiginosamente, l’utilizzo di certi linguaggi, di certi immaginari violenti e razzisti, di certe riduzioni della realtà, finisca per attecchire oltre la sede urlata della propaganda ideologica, fino al terreno vitale delle umane quotidianità del Paese.

La scuola, sì, la scuola, il luogo dove spesso si sorride di fronte ai toni apocalittici di certe narrazioni, proprio perché nella tranquillità del lavoro le soluzioni e il futuro sono già sotto gli occhi da tempo, oggi rischia irruzioni di elefanti dentro cristallerie di rapporti vitali, tessuti con pazienza e speranza. E di questo anche la politica deve rispondere, di questo anche la politica deve essere responsabile. A tra quindici giorni.

14 febbraio 2018