La poesia di Testa e il pulsare segreto

Nell’ultima raccolta lirica del poeta, “L’erba di nessuno”, il richiamo lucreziano allo scorrere ininterrotto delle molecole, acque, alghe, tronchi e morene, di cui siamo parte

Ho sempre viaggiato molto in treno su e giù per l’Italia e spesso durante la sosta dei convogli ma anche in corsa sono stato attratto dalla sterpaglia sbilenca cresciuta accanto ai binari: una vegetazione resistente che non smette di prosperare giorno e notte, fra sassi, arbusti e cicche di sigaretta. C’è una grande forza, diciamolo pure, in questo tempo sovrano che sbrana se stesso, ecco perché mi è bastato leggere il titolo che Enrico Testa ha dato alla sua ultima raccolta lirica, L’erba di nessuno, per entrare in sintonia con lo spirito guida dei versi tesi a celebrare il taràssaco: «Calpestato sui crocevia, / s’abbassa esita poi tira su la testa. / Resiste a ogni angheria. / Strappato, di lui resta / – là sotto, nel profondo buio – / un pezzetto di radice / che rigermoglia / tra pietra creta limo e carestia».

Scatta inevitabile il richiamo lucreziano allo scorrere ininterrotto delle molecole, acque, alghe, tronchi e morene, di cui siamo parte: «Giustamente dunque le cose periscono / quando, sfinite dal flusso continuo, / tutte soccombono ai colpi esterni / dei martellanti corpuscoli che, ostili e ostinati, / non cessano mai di logorare, vincendo, la vita». È un’opera, questa, volta a registrare gli spostamenti profondi, viscerali, dei sistemi cosmici, senza mai dimenticare le vischiosità cronachistiche della storia umana, compreso il «vecchio ragazzo povero Cristo solo» crocifisso «all’albero di ladri» di Dylan Thomas. E i risultati maggiori il poeta li coglie proprio evocando, nella realtà quotidiana, il pulsare segreto dell’energia universale: «Camminando in campagna, / le piante spinulose / con rampini e rostri / s’attaccano a pantaloni e scarpe». Quella che in uno scorcio fra i più intensi egli definisce «la provincia del non noi». Di cosa stiamo parlando? «Sono le cave della vita, / più gole che strade / affossate sotto i campi coltivati». Là dove andremo a finire, inevitabilmente, quando le nostre ossa si saranno spezzate, comprese, inutile illudersi, «le protesi omerali / che ci innestarono nel braccio / dopo la caduta in moto».

Resta come un gioiello la meraviglia della “zona di transito”: esistenza ombrosa e cocciuta simile a quella del muschio che non svanisce mai nella sua “sottovita”, al quale l’autore con indomita fierezza intende assomigliare, di cui perfino le genti africane accampate lungo i cavalcavia di Ventimiglia, è bello sottolinearlo, recano plasticamente un’improvvisa, folgorante testimonianza. Poi l’ultima parola Enrico Testa la lascia all’amato Philip Larkin, tradotto in simbiotica consonanza: «Le cose che facciamo ogni giorno / per denaro o per divertimento / possono svanire come rugiada / o indurirsi e sopravvivere. / Una strana reciprocità: / sono i dettagli, le circostanze e le abitudini /che noi ci siamo costruiti ogni giorno / a costruire noi stessi e la nostra storia; / a diventare la nostra memoria».

10 luglio 2023