La pochezza e la grandezza dell’uomo nei versi di Leopardi

Dedicato al “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” l’incontro quaresimale con Nembrini nella basilica lateranense. Il poeta di Recanati, «l’ultimo grande capace di stupore, che si piega davanti al mistero, interrogando la realtà senza giudicarla»

La pochezza e la grandezza umana vengono presentate insieme nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Da un lato Leopardi considera infatti l’incapacità dell’uomo di trovare la risposta alla domanda fondamentale sul senso dell’esistenza, dall’altro esprime la volontà di non rinunciare a cercarla, accettando quindi «il rischio del cammino», perché «sente che c’è una meta» – e in questo sentire è la sua grandezza – ma «non trova e non vede la strada» per raggiungerla e «questa è per lui la tragedia». Sovrapponendo al poeta di Recanati il protagonista del famoso componimento del 1829, il professore e saggista Franco Nembrini ha trattato ieri sera, 22 marzo, delle «domande dell’uomo nella sua radice e nella sua nudità, le domande cioè di ogni uomo, quale che sia la sua condizione di vita», nel corso del quarto incontro del quaresimale promosso dalla diocesi di Roma e intitolato “Ed io che sono? Letture scelte di Giacomo Leopardi”.

Aprendo la serata in una basilica di San Giovanni in Laterano gremita, don Fabio Rosini, direttore dell’Ufficio diocesano per le vocazioni, nel suo saluto ha accostato il “pastore errante” di Leopardi ad Abramo, che «si lascia portare fuori dalla sua terra da Dio» ma che vive anche «una crisi e una notte di terrore e paura per l’allearsi con un Dio che stava ancora conoscendo», mostrando come «la fede è questo: passare attraverso momenti in cui non si vede la vetta» sapendo però che, «anche in quei momenti, Dio sta scrivendo una storia». Manca a Leopardi, e al suo pastore che erra e quindi vagabonda e «si muove senza una meta», la fede che Abramo ha in Dio, ma c’è anche nel recanatese «la grande domanda e l’attesa di una risposta da gustare», ha detto Nembrini.

Una risposta che nella prima parte del canto sembra essere apodittica: «Tale è la vita mortale», dice il poeta che «con un realismo terribile registra l’esperienza faticosa della vita dell’uomo e la fotografa in due immagini – ha spiegato l’esperto -: il vecchiarello che fatica, cade e si rialza per precipitare infine nell’abisso e il pianto del bambino appena nato, che fin dalla nascita i genitori non possono fare altro che consolare». Nella prima parte dell’opera, allora, Leopardi, stabilendo «un parallelismo perfetto tra la parabola della Luna e quella del pastore, tra un fenomeno universale e la vita infima di un uomo», ribadisce unicamente «la terribilità della condizione umana». Nella seconda parte, «di tutt’altro tono», apre invece «a un’altra possibilità» e stilisticamente questo «slancio verso l’alto» è dato dalla «catena dei “forse” su cui è costruito il resto della poesia», sono ancora le parole di Nembrini. Rivolgendosi alla Luna, «che per Leopardi è il cielo, l’infinito, il mistero, l’Essere – ha continuato il saggista -, le dice che forse lei conosce il perché del nostro dolore e delle nostre sofferenze» e poi, «come se spiccasse il volo, afferma: “Tu certo comprendi”», laddove quell’avverbio, per chi «era partito dalla negazione assoluta, introducendo poi il “forse”», dice di «una certezza assoluta». Ma «come fai a dire queste cose senza avere la fede?», si è chiesto retoricamente Nembrini per poi pervenire «al cuore della poesia» e a «quella domanda – “Ed io che sono?” – che ha dato il titolo a tutto il nostro percorso quaresimale».

Per l’esperto a questa che è «la domanda» si può provare a dare risposta «pensando e ragionando», intendendo cioè «la ragione come categoria della possibilità». Leopardi infatti «sta descrivendo una modalità di conoscenza che sente abbandonata dalla modernità, che si è eretta sulla presunzione per cui la realtà non esiste mentre ciò che conta è il mio pensiero», frutto di una «”dea ragione” che giudica, ricostruisce e determina a proprio piacimento la realtà». Ma questa è «una realtà che non richiede nessuno stupore e nessuna venerazione – ha continuato –  mentre chi è realista come lo è Leopardi sta davanti alle cose e al mistero e sente che la realtà è più grande del suo pensiero». Il poeta di Recanati è infatti per Nembrini «l’ultimo grande poeta capace di stupore e che si piega davanti al mistero, interrogando la realtà anche con disperazione ma senza presumere di giudicarla». Quello di Leopardi è quindi «lo stupore del bambino, è l’affidamento a qualcosa di più grande, che ci precede e che ci ha voluto – ha concluso -. Anche se la verità lui sente che non gli è dato conoscerla, sente che certamente esiste» e per questo «grida la certezza della bontà della sua domanda e l’uomo è questa domanda di grandezza e di bene».

Nelle sue riflessioni finali, il cardinale vicario Angelo De Donatis ha proposto la lettura del salmo 23, che «ci accompagna nel combattimento e ci ricorda la misericordia di Dio» perché se il Signore è il nostro pastore, «grazie al suo bastone e al suo vincastro non cadremo nel vuoto» ma «con sorpresa infinita avremo un posto alla grande tavola della festa».

L’ultimo incontro è in calendario per mercoledì prossimo, 29 marzo, alle 19 in cattedrale. Sarà disponibile anche la diretta streaming sul canale YouTube della diocesi e quella in tv su Telepace.

23 marzo 2023