“La luna e i falò”: Pavese e le radici spezzate

Un testamento accorato e sanguinoso, che chiama in causa l’Italia e l’Europa di oggi: considera chi arriva da lontano e attraverso di lui guarda te stesso

Tante volte ho pensato che se oggi un immigrato, fra i molti venuti a cercare lavoro nelle nostre contrade e metropoli, tornasse al paese natale, Bamako o Khouribga, una campagna intorno a Bucarest o certe baracche alla periferia di Dacca, e volesse raccontare la propria storia e quella di chi ha visto, forse scriverebbe un romanzo simile a La luna e i falò che Cesare Pavese compose cinquantanni fa, pochi mesi prima di suicidarsi a Torino nell’albergo Roma.

I paesaggi certo apparirebbero diversi: al posto dell’America ci saremmo noi, qualche villaggio africano prenderebbe il posto delle Langhe; ma i temi evocati, con ogni probabilità, non muterebbero e la trama di sicuro nella sostanza resterebbe uguale. Ci sarebbe sempre un Anguilla, il nome del protagonista pavesiano, trovatello raccolto per strada, cresciuto in una famiglia non sua, che a un certo punto emigra, se ne va prima a Genova, poi addirittura dall’altra parte del mondo nel tentativo di trovare fortuna, e anche qualcosa di più, ma dopo stagioni di vita, esperienze, incontri belli e brutti, inevitabilmente ritorna, come se, nonostante i risparmi accumulati, non fosse stato capace di scrollarsi di dosso il peso dell’inquietudine, senza aver sciolto l’amarezza del vagabondo, non essendo riuscito a realizzare il sogno di un’altra vita. Ci sarebbe lui, insieme a Nuto, vecchio amico d’infanzia, ritrovato dopo anni, e magari anche Cinto, il povero ragazzino zoppo in cui rivedersi ma non riconoscersi, se non nel disperato grido finale quando annuncia il suicidio del padre e lo sterminio dell’intera famiglia sullo sfondo tragico dell’ultimo incendio sulla collina sfregiata dalla guerra.

Chissà, il nostro Mohamed, o Samir, o Faris, una volta tornato a casa, apprenderebbe con sgomento le violenze delle faide tribali consumate qualche anno prima, durante la sua assenza, in modi non dissimili da quelli che capitano ad Anguilla, nel momento in cui gli raccontano la vicenda della bellissima Santa, finita bruciata dai partigiani dopo essere stata scoperta come spia dei nazisti; la stessa ragazza che lui aveva conosciuto bambina, insieme alle sorelle nella cascina della Mora dove raccoglievano i frutti dagli alberi e andavano a funghi.

Interpretato così, La luna e i falò perde il timbro cronachistico legato alla narrativa del secondo dopoguerra con il quale troppo spesso viene ancora rubricato negli annali letterari e acquista una dimensione universale assai più vicina alla caratura mitica che gli dava il suo autore: «Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c’è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina – e un Nuto, un Canelli, una stazione, c’è uno come me che vuole andarsene via a far fortuna – e nell’estate battono il grano, vendemmiano, nell’inverno vanno a caccia, c’è un terrazzo – tutto succede come a noi». Allora Pavese, nel suo testamento accorato e sanguinoso sulle radici spezzate, ci starebbe dicendo qualcosa che chiama in causa l’Italia e l’Europa di oggi. Attraverso il suo Piemonte atavico e la sua California da cartolina, ci direbbe: considera chi arriva da lontano e, attraverso di lui, guarda te stesso.

16 settembre 2019