La lezione di Vittorio Bachelet

Ottobre 2007, l’intervista di Roma Sette al fratello padre Paolo, gesuita, fratello del magistrato ucciso dai terroristi nel 1980. «Esempio di coerenza morale»

Assassinato il 12 febbraio 1980 nell’atrio della facoltà di Scienze politiche dell’università La Sapienza, da un commando delle Brigate Rosse, Vittorio Bachelet rimane, a distanza di anni, un esempio di quei valori che rimangono perenni di fronte alle sfide della storia e di come si possa trasformare la propria esistenza in un’esigente lezione di metodo. Della sua figura e dell’attualità che riveste, Roma Sette ha parlato con il fratello, sacerdote gesuita, padre Paolo Bachelet.

Nel nostro paese si è data spesso più visibilità ai terroristi che non ai famigliari delle vittime. Lei e i suoi parenti avete mai vissuto un senso di solitudine, d’isolamento?

A dire la verità, nella nostra famiglia, dopo la morte di Vittorio, nonostante la sofferenza che non si cancella, non abbiamo vissuto un senso di distacco, perché anche negli anni seguenti si è continuato a parlare e scrive di lui. Inoltre, da parte dell’Azione Cattolica e di altre istituzioni sono stati promossi incontri di commemorazione e seminari di studio in suo ricordo, es è venuta in risalto la grandezza della sua figura, anche al di là di quello che la sua modestia lasciava trasparire.

Oggi i cattolici si chiedono come poter essere più presenti nella società. L’interrogativo è complesso, ma l’esempio di suo fratello credo valga più di tanti discorsi, Come ricorda Vittorio e il suo spirito di servizio?

È molto significativo che proprio lui, che ha promosso per l’Azione Cattolica la «scelta religiosa», abbia mostrato sempre un grande impegno al sevizio della società civile. Si può dire che abbia spiegato quella scelta con la sua vita, prima di tutto nell’esercizio della professione di giurista e di docente, nella pubblicazione di molti libri e articoli di grande valore sociale. Ha saputo, poi, anche prendere decisioni difficili, ispirandosi al bene comune più che all’interesse personale. La sua competenza poteva garantirgli collaborazioni e consulenze con enti pubblici o grandi aziende, con indubbi vantaggi economici. Egli, però, preferì servire la società in altro modo. è in spirito di servizio che ha accettato incarichi come quello di consigliere al Consiglio Comunale di Roma e di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, dove si è affermato per la sua preparazione e il suo equilibrio, ed è stato apprezzato per la sua preparazione e il suo equilibrio, ed è stato apprezzato per la coerenza morale e la discrezione con cui viveva e testimoniava la fede: senza ostentarla e senza nasconderla, senza imporla e senza scalfirla.

Suo nipote Giovanni, durante i funerali del 14 febbraio 1980 pregò affinché «sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta». Nei casi di cronaca nera, oggi più che mai i giornalisti chiedono a caldo ai parenti delle vittime se hanno perdonato l’assassino, come se ciò fosse «cristianamente scontato». Che sofferenza comporta, invece, la quotidianità del perdono nella sua esperienza?

Quando sento quelle domande, insorge in me un senso di grande dolore e indignazione. Mi sembra un comportamento impietoso, un fare violenza all’intimità di una persona oppressa dalla sofferenza, che ha diritto al massimo riserbo e rispetto. Inoltre, anche il cristiano più convinto e fedele, spesso per motivi psicologici o per reazione istintuale, può aver bisogno di un certo tempo, anche lungo, per arrivare ad una risposta pienamente controllata. In terzo luogo, sono domande che possono suscitare risposte inesatte, perché la parola perdono, può essere facilmente equivocata. Molti dicono: «Non posso perdonare perché non riesco a dimenticare», ma quando dimentichi che cosa perdoni? Se uno ha fatto una ferita al braccio, anche se lo perdono, il dolore al braccio rimane, ma il perdono è vero e valido. Infine, quelle sollecitazioni da parte della stampa rischiamo di confondere e mettere sullo stesso piano il perdono personale per l’offesa e il danno subito, conn la necessità o l’opportunità che vengano presi, secondo la legge, dei provvedimenti giudiziari a tutela della giustizia e del bene comune.

Suo fratello Adolfo ha intessuto un lungo dialogo con i terroristi incontrandone in dieci anni centinaia. Era convinto che fossero loro i più bisognosi di Dio e ha ottenuto frutti meravigliosi dimostrando che il rancore si può deporre. La memoria invece, come si alimenta?

Alcuni terroristi hanno detto: «Siamo stati sconfitti quando siamo stati perdonati». E hanno capito che il rimedio al male, nel mondo, non consiste nella violenza, ma nell’amore. Hanno sperimentato l’amore dell’uomo e quindi l’amore di Dio. Cambiata vita e ottenuta la libertà, parziale o totale, hanno scelto lavori d’utilità sociale – per esempio con portatori di handicap – per riparare il male compiuto e per «fare largo» al bene. Questa è la memoria da alimentare. D’altra parte, in un momento storico in cui sembra che l’umanità viva una fase d’involuzione dei valori, il ricordo del passato va nutrito vivendo e testimoniando quelle qualità di cui Vittorio è stato un esempio: la legalità, il disinteresse, il dialogo, l’attuazione del Concilio, nell’assunzione delle proprie responsabilità all’interno della società civile e della Chiesa, coniugando la fedeltà dei principi con la distinzione degli ambiti. (di Francesco Lalli)

28 ottobre 2007